Un’orda di barbari vichinghi ha espugnato la roccaforte di Twitter: politici e VIP sono stati giustiziati a colpi d’accetta, il loro sangue è stato quindi raccolto in sacre reliquie da elevare ai canti della folla festante. È questo il resoconto che i media tradizionali stanno fornendo in questi giorni del social network delle cinguettate, rimandandone un’immagine di spietata guerra senza esclusioni di colpi, di campo di battaglia dell’insulto, di luogo ameno del Web da regolamentare al più presto. E il lamentio che ne consegue – una straziante litania ormai ripetuta a cadenza quotidiana – lascia perplessi non solo per la sua intensità, ma anche per l’origine. Sì, perché sebbene i media tradizionali non lo dicano, a lanciare strali contro l’interazione social sono quasi esclusivamente due categorie d’utenti: celebrity e politici. Non vi sarà allora qualche forma di esagerazione o – peggio – un’errata interpretazione del mezzo? E, ancora, sono davvero necessarie delle leggi speciali per il Web, quando la maggioranza della popolazione d’internauti non avverte un problema di deregolamentazione della Rete? La relazione tra personaggi famosi e Twitter fa quindi sorgere alla mente un noto meme, quello del cagnolino al computer completamente ignaro su ciò che stia facendo.
L’ha sottolineato egregiamente Arianna Ciccone nel suo intervento “Insulti 2.0 for Dummies“: i soggetti che oggi strillano per interventi speciali e censura, sono soggetti che hanno dimostrato di saperne gran poco del mezzo che stanno utilizzando. Così si chiede l’intervento della Polizia quando il tasto “blocca” sarebbe più che sufficiente per allontanare ogni molesto disturbatore. Così si richiede il blocco degli accessi solo perché il personaggio di turno è totalmente scevro da nozioni basilari come quella di retweet, non ha idea di cosa sia un TOS e l’unica idea associata a IP è quella di un distributore di benzina. Insomma, più che regolamentare il Web, non servirà invece studiare la fenomenologia del VIP e del politico sui social network?
Fenomeno 1: il mito della connotazione
La Rete è buona, la Rete è cattiva, la Rete stimola gli istinti più bassi dell’uomo. Politici e VIP da anni – praticamente dalla nascita della stessa Internet – si divertono a connotare positivamente o negativamente il Web, come se si trattasse di un’entità astratta dotata di propria coscienza. Il primo assunto da sfatare è proprio questo: Internet è soltanto un mezzo, così come lo sono i social network. La presenza di uno spazio per l’inserimento dei propri commenti non ne determinerà a priori i contenuti, così come la pagina bianca non suggerirà un romanzo a uno scrittore. La Rete non è buona o cattiva, riflette la società reale. E nella società reale ci sono persone dotate di educazione, altre di cafoneria, altre di spiccata intelligenza e altre ancora di ignoranza. Il problema non può essere risolto chiedendo una legislazione specifica, bensì imparando a decifrare l’interlocutore con cui ci si trova a parlare.
Fenomeno 2: il mito della crocifissione
Diciamolo chiaramente: chiunque abbia mai incrociato un politico o una celebrity sui social network – fortunatamente esistono molte eccezioni – non può essersi posto la fatidica domanda: “ci sono o ci fanno?”. Molti dei personaggi che oggi richiedono l’intervento delle forze swat per liberare la Rete dal Demonio, in realtà non hanno mai imparato ad approcciarsi alla Rete stessa. Sono saltati sul vagone di Twitter giusto per inseguire una moda, perché “oggi non sei nessuno se non cinguetti”, per farsi vedere “giovani e freschi” agli occhi di elettorato e fan. Per farlo, però, hanno adottato le stesse logiche di un salotto televisivo: quello dell’unidirezionalità della comunicazione. I tweet sono spesso degli slogan e non è concepita la possibilità di risposta. Ma i social network nascono appositamente per agevolare l’interazione e se il politico di turno si aspetta di non ricevere critiche o precisazioni su quanto ha pubblicato, vive probabilmente in una sorta di sonnolente illusione. Nasce così il mito della crocifissione: una semplice critica si trasforma in feroce “aggressione”, la sottolineatura di un errore una pratica di “becero bullismo”. Vero: probabilmente l’utente sconosciuto di Casalpusterlengo non dovrà troppo preoccuparsi di cosa scrive e della forma con cui presenta i propri pensieri alla Rete, ridotta a una cerchia ristretta di amici. Ma politici e VIP si ricordano di essere personaggi pubblici? È normale, proprio per la loro fama, che abbiano milioni di occhi virtuali puntati addosso. Ed è normale che i loro interventi siano passati al vaglio con intensità notevolmente maggiori rispetto agli sconosciuti. Perché, allora, anziché chiedere leggi speciali non si assume un esperto in comunicazione?
Fenomeno 3: il mito dell’anonimato
“La Rete stimola l’aggressività grazie all’anonimato”: questa è certamente una delle frasi che VIP e politici amano ripetere con più frequenza, elogiandosi con sorrisi e strette di mano a ogni ripetizione. Non accorgendosi però della loro incompetenza, perché nessuno sui social network è davvero anonimo. Dietro a un nick si nasconde un utente registrato, un utente che ha fornito nome-cognome-email per accedere al servizio, un utente i cui log vengono salvati ogni volta che si connette sui social, di cui esiste un IP e quasi certamente anche la posizione geografica. E si parla di anonimato? Qualora ritenessero di essere stati offesi, diffamati e calunniati, questi personaggi non dovrebbero richiedere leggi ad hoc per il Web. Dovrebbero – in aggiunta sempre al valido consiglio di apprendere le straordinarie funzionalità del tasto “blocca” – rivolgersi alle autorità competenti. A meno che non si tratti di un misterioso combattente arruolato fra le fila di Anonymous, nella maggioranza dei casi non sarà affatto difficile risalirne all’identità. Tranne nel caso in cui la carta dell’anonimato non sia solamente un jolly da sfoderare nei talk show, sui quotidiani o come argomentazione fast per le campagne elettorali.
Fenomeno 4: il mito dell’incolumità
VIP e politici ci ricordano a cadenza quotidiana quanto la loro incolumità personale sia messa a repentaglio dall’utilizzo di Facebook e Twitter. Ci sono effettivamente dei casi in cui le minacce della Rete assumono un valore preoccupante – si pensi ad alcune frasi eccessive rivolte nei confronti di Laura Boldrini oppure a certi inopportuni commenti di gioia dopo la sparatoria di Roma – ma nella maggioranza dei casi si tratta di un’esagerazione a uso e consumo dei media. Abbiamo casi storicamente noti – e si veda l’appendice sulla querela per sapere perché i nomi qui non vengono citati – di personaggi pubblici che si sono pubblicamente lamentati di problemi alla loro sicurezza, salvo poi scoprire come si sia trattato di un “Crepa!” o di un “Ma ammazzati!” lasciato da qualche avventore di passaggio. Sebbene si tratti di frasi lanciate al vento da qualcuno forse non propriamente dotato di capacità dialettica, possono essere annoverate queste dichiarazioni nell’area delle minacce di morte? Si può sollevare un polverone per una frase che ha più il sapore di un’invito a recarsi a quel noto paese? Evidentemente si può. E probabilmente a qualcuno fa comodo farlo.
Fenomeno 5: il mito della legge speciale
La legge speciale è il nuovo nero, quel colore che si adatta a tutti gli outfit, che sta bene sia sui magri che su chi ha qualche chiletto di troppo. Ogni qualvolta sorge una polemica sul Web, la carta della legge speciale – ai più un modo soft per chiamare la censura – viene estratta dalla manica. Ci si domanda per quale motivo. L’ordinamento italiano è infatti molto completo e autoevidente su certi reati che si contestano alla Rete – a partire dalla diffamazione – e ci si chiede perché dovrebbe rendersi necessaria una legge ad hoc quando il Codice Penale è più che esaustivo in materia. Come già sostenuto, chi si sente diffamato ha tutti gli strumenti – a partire dall’identificazione dell’utente – per difendere il proprio onore. Non serve calare la scure della censura sul Web, serve applicare le leggi che già esistono e che già ben funzionano. Il dubbio è allora che si ricorra alla legge speciale per intenti secondari.
Appendice 1: la querela come panacea
Politici e celebrity hanno goduto per anni – e ancora tutt’oggi ne fanno ricorso – della panacea a tutti i mali: l’istituto della querela. Essendo l’ammissibilità del reato contestato verificata in itinere, si è ricorso spesso alla querela nei confronti di quotidiani, editori e anche privati per scopi ben diversi da quelli della difesa della propria reputazione. A quanti giornalisti sarà capitato di essere stati querelati pur non avendo diffamato nessuno? Quanti piccoli editori hanno dovuto chiudere rubriche intere o, peggio, cessare in toto le pubblicazioni per le troppe illecite querele ricevute? Quanti privati si sono visti recapitare notifiche per commenti tutt’altro che offensivi lasciati sui social network? La querela oggi è largamente utilizzata come strumento di minaccia: non si arriva pressoché mai agli esiti finali della sentenza – nella gran parte dei casi la causa verrà giudicata inammissibile – ma il solo fatto di sporgere querela è più che sufficiente per far perdere il posto di lavoro a un giornalista, per cancellare gli investimenti pubblicitari di un piccolo editore o per mandare un privato sul lastrico tra spese legali e tutto ciò che ne consegue. L’instituto della querela, però, sui social network non sempre funziona. O meglio, funziona nei modi con cui i legislatori l’hanno originariamente previsto e con cui è tutelato nel nostro ordinamento. Data l’enormità di utenti collegati, diventa difficile per il VIP o il politico di turno sfruttare la querela come strumento di minaccia, anche solo per semplici opportunità economiche. I commenti sono troppi, le conversazioni difficili da ricostruire, le persone facilmente confondibili. Sarà per questo, allora, che ci si nasconde sotto l’egida della legge speciale?
Appendice 2: la sindrome della diva anni ’20
Dorso della mano destra appoggiata sulla fronte, braccio sinistro teso all’infinito e occhi chiusi ricolmi di lacrime: è questo l’escamotage visivo spesso utilizzato nel teatro degli anni ’20 per agevolare l’uscita di scena della diva, magari distrutta dal diniego dell’amato. Ed è la stessa immagine a cui rimandano politici e VIP ogni volta che si sentono in dovere di compilare un comunicato stampa – e di inoltrarlo a qualsiasi redazione del globo – per informare la cancellazione del loro account da Twitter. Non tutti decidono di seguire le orme di Enrico Mentana o Fiorello, i quali si sono tolti da Twitter semplicemente annunciandolo con un messaggio ai follower, molti altri ricorrono a vere e proprie campagne di sapiente marketing. Non sarà, di conseguenza, che certe situazioni social a molti facciano comodo e la polemica che oggi vede investito Twitter sia un’ottima possibilità di autopromozione? Il dubbio che la scusa dell'”aggressione su Internet” sia invece un mezzo per riconquistare la copertina di un magazine per personaggi in calo di popolarità è sin troppo forte.