La diatriba sui filtri P2P vede ormai da una parte le associazioni dei consumatori e dall’altra le case discografiche, mentre si trovano (loro malgrado) nel mezzo i provider. Le case discografiche fanno sempre più pressione sugli esponenti della politica affinché vengano emanate leggi per legittimare i filtri p2p.
Le associazioni dei consumatori denunciano l’illegittimità dell’utilizzo dei filtri, provvedimento che al momento è illegale. I provider si ritrovano a dover soddisfare una o l’altra parte.
Cosa c’entra Skype in tutto questo? Per capirlo bisogna vedere come funziona il protocollo su cui si basa Skype. Nel “sistema Skype” un utente viene visto come un nodo di una rete, tutti questi nodi si uniscono in modo dinamico per coordinare l’instradamento costruendo una sub rete autoregolata evitando così la necessità di server per gestire una rete “classica”.
Skype in pratica funziona esattamente come i programmi utilizzati per il file sharing (eMule, eDonkey, Torrent etc.) ed ecco il problema. I filtri attuati dei providers non sono in grado di riconoscere la differenza tra un pacchetto creato da emule (tanto per fare un esempio) e skype. Una connessione bloccata si troverebbe sì impossibilitata a scaricare software illegalmente ma allo stesso tempo impossibilitata a chiamare tramite Skype.
Si capisce che l’utilizzo su ampia scala dei filtri per il p2p comporterebbe un notevole danno economico a Skype, il quale si vedrebbe impossibilitato ad offrire il suo servizio. Questo ha costretto i dirigenti di Skype a muoversi per evitare la legalizzazione dei filtri e schierarsi quindi dalla parte dei consumatori.