Cosa è la fotografia? Cosa è diventata? Quale il suo rapporto con la tecnologia? È sulla scia di queste riflessioni che un incontro con il fotografo Oliviero Toscani è diventato un atto di ricerca che riporta ad una domanda ancestrale e sospesa, avvitata da sempre nel suo non avere una risposta assoluta e definitiva: cosa è la bellezza?
L’occasione è quella della presentazione del progetto “Superdonne“, voluto e organizzato dall’Associazione Montanapoleone di Milano in collaborazione con Canon. La mostra raccoglie una serie di fotografie firmate da Toscani e tratte dalla propria decennale ricerca “Razza umana”. Una selezione precisa, basata sulla volontà di estrapolare la bellezza dalla realtà. Il tutto in modo “nudo”, carpendo la bellezza nel suo habitat naturale e senza alcuna sovrastruttura che ne ricrei le forme. Non una bellezza artefatta e standardizzata, quindi, ma una ricerca verso il vero. Verso l’unico. Verso l’umano. Lontano dagli stereotipi e senza il dovere di piacere
Le immagini della mostra, esposte a Milano in via Montenapoleone in questi giorni, sono un’esplosione di emozioni scatenata da sguardi, rughe, colori e imperfezioni. No, non difetti, ma segni univoci, impronte di un vissuto. Toscani in tal senso è esplicito: occorre tornare a cercare la bellezza vera attraverso una ricerca dell’autenticità, poiché nell’era della copia nulla ha più valore di ciò che è autentico. La fotografia in tal senso deve sapersi nascondere, scomparire: «la macchina fotografica va messa dietro agli occhi e non davanti», perché lo scatto deve essere un’idea e non una azione manuale o un arteficio tecnico. Negli sguardi delle donne fotografate da Oliviero Toscani c’è molto più di un incrocio di pupille: fotografare lo specchio dell’anima significa realmente catturarne un pezzo e farlo proprio, poiché duplicandolo se ne estrapola una parte per replicarla in tanti cloni privi di vita. Per questo lo sguardo delle modelle, spiega ancora Toscani, è abulico e privo di comunicazione: è il frutto della ripetitività degli scatti, del professionismo di una moda che ha rinunciato alla ricerca del bello per produrne uno artificiale ad uso e consumo del mercato.
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Fotografia e tecnologia
Nel raccontare la propria ricerca, Oliviero Toscani sviscera anche il proprio rapporto con la tecnologia, poiché secondo il fotografo si è ormai raggiunto un livello nuovo di consapevolezza che richiede una maturazione culturale da parte di chi fa fotografie. In questo Toscani distingue l’amatore dal professionista, senza lesinare critiche ad entrambi. L’amatore, infatti, troppo spesso si lascia attirare da filtri e artefici tali da spostare l’importanza dello scatto sulla post-produzione. Il professionista, invece, dovrebbe essere capace di andare oltre la propria capacità tecnica, aggiungendo la creatività alle proprie doti in portfolio ed alla qualità della propria Reflex. Una fotografia, insomma, non è soltanto piacevolezza: è, nel bisogno, durezza, messaggio graffiante, verità. «Vorrei togliere l’autocompiacimento estetico dagli scatti», così che la verità possa emergere con più forza. Dalla foto devono scomparire lo strumento e il fotografo, così che l’osservatore e il soggetto fotografato possano essere in contatto diretto, senza mediatori.
Secondo Toscani, gli amatori peccano invece nella ricerca di strumenti che banalizzano il risultato, coprendo le mancanze in termini di creatività (partendo dai filtri fotografici fino a quelli di Instagram). I professionisti invece troppo spesso si perdono nei dettagli del formalismo, nelle tecnicaglie di chi conosce lo strumento a menadito e possiede tutta la nozionistica dell’arte: Toscani suggerisce un ritorno alle origini, al vero, all’immagine che nella sua unicità sappia trasmettere un messaggio chiaro, originale, distintivo.
Quello di Toscani non è un attacco alla tecnologia, anzi: rivolgendosi direttamente a Canon, partner dell’esposizione, ne benedice la qualità tecnologica degli strumenti e confida di non fare uso di troppe funzioni: l’artista sposta l’attenzione dai dettagli alla sostanza, riponendo maggiore attenzione all’idea che non alla tecnica. Gli strumenti odierni offrono al fotografo tutto quel che possa desiderare: quest’ultimo deve averne pieno possesso metabolizzando la nozionistica necessaria, ma non deve pensare alla tecnologia come simulacro di qualità: fine e strumento debbono rimanere distinti, pena un errore di principio che porta ad un risultato privo di valore.
Al tempo stesso Toscani benedice gli smartphone per la loro immediatezza: l’obiettivo del cancellare le mediazioni va esattamente nella direzione dell’artista. Tuttavia proprio le mancanze tecnologiche degli smartphone e l’interazione con i social network crea la morte del gusto e del senso critico: i filtri vanno a nascondere le mancanze tecniche o a colmare le carenze creative del fotografo di turno, i formalismi estetici hanno la meglio e la “verità” che lo smartphone dovrebbe aiutare ad estrapolare rimane invece seppellita dietro ad una quantità tale di sovrastrutture da rendere la situazione sempre peggiore. La standardizzazione dei soggetti fotografati ne è la riprova: la moltiplicazione degli scatti disponibili online altro non è se non l’allontanamento definitivo dall’ideale voluto da Toscani: la ricerca del vero è sempre meno perseguita, poiché troppo ampia è la necessità di una accettazione sociale basata su “like” e immagini frutto di faciloneria.
La tecnologia, a maggior ragione oggi, è uno strumento e in quanto tale utile a esaltare le qualità dell’uomo. Se non ci sono le qualità, però, ecco che la tecnologia stessa può lavorare per appianare i gap e favorire l’apparenza. L’arte fotografica però sta andando altrove, con altri strumenti e con altri principi. E non è una direzione alla quale si possa avere accesso esclusivo: non importa se si è amatoriali o professionisti, quel che conta è l’amore che si ripone nella fotografia e la creatività che si riversa nella propria ricerca estetica. Perché è bello quel che è bello, non semplicisticamente ciò che piace.