Garante: anno spartiacque per la privacy

La relazione annuale del Garante della privacy è un viaggio in tutti i campi della trasformazione dell'identità delle persone imposta dalla tecnologia.
Garante: anno spartiacque per la privacy
La relazione annuale del Garante della privacy è un viaggio in tutti i campi della trasformazione dell'identità delle persone imposta dalla tecnologia.

Il Garante della privacy ha presentato a Roma la relazione che riassume un anno di attività: un 2016 denso di sfide, che vanno dal nuovo regolamento europeo al diritto all’oblio, dal privacy by design alla complessa questione dei trattamento dei dati personali nelle piattaforme globali. Un documento molto denso e importante, che parla di come siamo profilati e di come questo fatto va ogni volta esaminato, circostanziato, limitato ma anche concesso.

Il crimine informatico e la cybersicurezza; i social media; il cyberbullismo; la lotta al terrorismo e la sorveglianza di massa; i Big Data; la geolocalizzazione nel mondo del lavoro; la trasparenza della pubblica amministrazione; la tutela della riservatezza dei cittadini nelle vesti di pazienti, lavoratori, contribuenti, risparmiatori; il telemarketing; le intercettazioni e la protezione dei dati contenuti negli atti processuali; la tutela dei minori da parte dei media; i diritti dei consumatori; le grandi banche dati pubbliche; il mondo della scuola; il diritto all’oblio; le garanzie per il trasferimento dei dati negli Usa. Scorrere la Relazione annuale dell’attività del Garante (pdf) è come rivedere un anno di cronache per un magazine come Webnews. Inevitabile: la tecnologia ha occupato tutti gli ambiti della vita privata e pubblica, stressando concetti che si credeva fissi nel tempo; i campi di intervento e loro estensione quasi si sovrappongono al racconto quotidiano della digital trasformation.

Gli interventi

Tra gli interventi più rilevanti, il Garante ha ricordato il lavoro fatto insieme a Google, la segnalazione a Facebook sul blocco dei falsi profili, gli sforzi, piuttosto pesanti, per dettare le policy ai fornitori di servizi pubblici e privati che hanno violato le norme, e molto altro. Il cuore del rapporto, però, è altrove, sta nelle descrizioni, molto lucide, delle varie modalità con le quali le identità vengono mercificate. Antonello Soro spiega nella sua relazione in Sala della Regina a Montecitorio (video) il modo in cui tutti noi diventiamo cifra per Big Data; così come è presente l’avvertimento sulla «delega alla tecnologia» e soprattutto all’algoritmo, specie nel fenomeno del rating delle società advisor per calcolare la reputazione degli individui sulla base delle informazioni raccolte online. Un altro tema cardine è l’influenza dei «detentori della conoscenza», pochi e in grado di influenzare le nostre scelte, comprese quelle elettorali.

L’identità personale rischia così di ridursi ad un profilo di consumatore, elettore, comunque utente che un algoritmo attribuisce a ciascuno, finendo per annullare l’unicità della persona, il suo valore, la sua eccezionalità. L’identità personale diventa una cifra per big data. La tutela della persona rispetto a queste forme di monitoraggio più o meno occulto del proprio comportamento in rete, è dunque indefettibile garanzia di libertà. Del resto, se ciò che per ciascuno è dato personale, intima essenza del sé, diviene per i grandi monopolisti del web dato economico da sfruttare commercialmente, le implicazioni in termini antropologici, ma anche sociali e politici sono eloquenti.

Una relazione molto bella, tra le più interessanti degli ultimi anni, probabilmente perché vede in controluce questi vent’anni di privacy (l’8 maggio 1997 entrava in vigore la prima legge sulla privacy), analizzando un anno particolare, bifronte: alla fine di una stagione, uno spartiacque importantissimo dove l’authority guarda sia al passato che al futuro, segnato dalle prossime regole europee che entreranno in vigore.

I numeri

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Perché sempre il termine “allarme”?

Un bilancio con molti dati, altrettanti spunti, pacato, lungo, di prospettiva. Eppure i titoli dei giornali, oggi, parlano solo di allarmi: pedopornografia, “Grande Fratello” e via dicendo. Titoli che non sopravvivrebbero a un fact checking dei reali contenuti della relazione del Garante, in particolare del suo discorso (pdf). Che senso ha? Solo negli ultimi giorni con il parere della Cassazione sulle condizioni di Totò Riina (spacciata come istanza di scarcerazione) e prima ancora con il fenomeno Blue Whale, si è notata la voglia irresistibile di creare allarmismi, in barba a ogni fondatezza, creando i presupposti stessi di una narrazione che poi mette la Rete, i social, sul banco degli imputati. Una rincorsa che necessita di continue precisazioni, tanto che ormai si stagliano nel dibattito autentici formati giornalistici, come Valigia Blu, che su questi come altri temi (immigrati, vaccini) ricostruiscono una filiera, riscontrano le fonti, precisano i termini. Insomma, fanno giornalismo in seconda battuta come invece dovrebbe essere idealmente già in prima.

La relazione dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali non fa alcun riferimento con quei toni così banali ad “allarmi”, sottolinea invece le grandi questioni in campo, anzi raccontando i risultati ottenuti lavorando sulle discipline, le garanzie, il dialogo coi player, seguendo le linee guida dei gruppi dell’Unione. Se il mainstream dev’essere sempre quello dell’allarme e dei titoli fuorvianti, inutile lamentarsi della disintermediazione e dello strapotere delle piattaforme di social media.

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