Il dibattito sul giornalismo online. Il problema del copyright. Le invettive contro Google News. Le denunce contro Google Books. La pirateria. Le richieste d’aiuto dei provider. Le richieste d’aiuto dell’incumbent. Le richieste di aiuto degli editori. Le richieste di aiuto dei produttori. Caos. Parole. Fenomenologie. Ma a monte, c’è un solo grande processo in atto: la digitalizzazione del mondo analogico.
Sedersi nel mondo digitale e guardare da questo parziale punto di vista il mondo che cambia rende il quadro completamente paradossale. Perché c’è un sistema intero a protestare e dibattersi per cercare di mantenere se stesso in qualche modo. La rinuncia alla trasformazione è radicale, perché va ad intaccare filiere intere. Nulla di clamoroso, peraltro: da sempre i sistemi lottano per sopravvivere. Se si pensa ai giornali di domani, ad esempio, l’immaginario collettivo vede ormai l’utente con in mano un reader ed un pulsante che apre al download immediato (con la forma di pagamento che il mercato vedrà imporsi). Quel che non si vede, però, è la chiusura delle rotative; lo svuotamento delle connivenze; il licenziamento dei corrieri della distribuzione; la scomparsa delle edicole, e con esse la pubblicità dettata dai titoloni delle prime pagine. Quando uno strumento scompare, scompare anche tutto l’ecosistema plasmatosi e sedimentatosi nel tempo sulla filiera. Nuovi attori fanno la loro comparsa, e tutti rivendicano la propria fetta: ci sono i nuovi editori; ci sono le nuove agenzie di pubblicità; ci sono i provider; ci sono gli sviluppatori; ci sono i venditori hardware. La sostituzione è radicale e non può essere né lineare, né indolore. Anzi.
Per questo le cifre e le opinioni provenienti dall’Albo dei Giornalisti debbono essere prese con le pinze: rispettosamente (come si deve a qualsiasi figura istituzionale), ma con estremo sospetto. Trattasi di valutazioni scaturite in occasione del convegno “Il futuro del giornalismo”, organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia. La proposta, più suggerita che non strutturata, è quella di una sorta di bollino a garanzia delle informazioni sul Web, così che l’Albo possa discernere a priori la qualità delle fonti suggerendo all’utente come, dove e perché informarsi. Tutto questo, spiega il Sole 24 Ore, «perché gli iscritti all’Ordine sono più esperti e competenti, perché sanno esprimersi con maggiore chiarezza e comprensibilità e perché sono tenuti a rispettare le norme della deontologia professionale».
Dietro queste frasi c’è la volontà di una certificazione che, al tempo della rete, sembra non funzionare più. Dietro queste frasi, inoltre, sembra esserci il colpo di reni di una organizzazione che, al tempo della rete, sembra aver esaurito buona parte della propria funzione. L’Ordine è in discussione da tempo ormai: promulga regole contestabili e difficilmente le fa rispettare, si fa “sindacato” della corporazione dei giornalisti ma poi lascia che il giornalismo diventi vittima e strumento tanto del politico quanto dell’uomo della strada, tanto dell’imprenditore quanto dell’industria del gossip. Oggi il giornalismo (nella sua complessità) appare zoppicante, poiché scarsamente tutelato e pesantemente inquinato e strumentalizzato. Isole felici si alternano ad oceani di fango, ed in questo contesto è difficile pretendere la fiducia dell’utente. Il quale, in tempo di crisi, non rinuncia al vizio ma rinuncia volentieri al quotidiano.
Il paradosso si completa leggendo frasi che, si badi bene, risalgono a 3 anni or sono: «Si evidenzia come non si possa più targettizzare il pubblico in base ai diversi interessi, ma, piuttosto, come sia più utile e realistico distinguere tra un pubblico passivo, che aspetta di ricevere le notizie, ed uno decisamente attivo, che cerca le informazioni, le commenta e ne aiuta la veicolazione. Il giornalista online si rivolge principalmente a questo pubblico come proprio interlocutore, un insieme di menti critiche che richiedono un servizio da parte di chi si occupa di informazione in modo professionale. […] Da un rapporto di tipo gerarchico con i lettori si è passati al dialogo, una vasta conversazione che coinvolge attivamente giornalisti e utenti, in uno scambio di punti di vista e visioni che non può che arricchire tutte le parti in gioco. […] Sei milioni di Italiani si informano su Internet e il numero di persone che si informano online è pari a quello di chi legge regolarmente i giornali. […] Si tratta di una fase di passaggio, un’epoca in cui ci sono strumenti che rendono possibile ciò che solo dieci anni fa era a mala pena ipotizzabile. […] Cosa distingue un giornalista da chiunque decida di fare comunicazione? Di certo la differenziazione non è legata, né può esserlo, al possesso o meno del tesserino». Ci son voluti tre anni, a quanto pare, per fare un passo… indietro.
E si torna al punto di partenza: se il giornalismo si trasforma, l’Albo potrebbe essere una di quelle entità che, bocciate dalla storia, potrebbe farsi da parte lasciando spazio a nuove forme di autoregolamentazione. Ma stabilire a priori cosa si andrà ad incontrare è sbagliato. È pertanto giusto, per linearità di ragionamento, che l’Albo, così come i giornali e gli editori, rivendichi con forza il proprio motivo d’essere e le proprie ambizioni. La mano invisibile dell’economia farà il resto, inesorabilmente, facendo scendere la scure al momento opportuno sul sistema.
Altro punto all’ordine del giorno al convegno “Il futuro del giornalismo” è relativo al modello di business da abbracciare. Numeri alla mano, l’Ordine ritiene sia venuto il momento di aprire alla distribuzione a pagamento, anche online. In assenza di entrate, infatti, il modello di business non regge e l’informazione ne risulta minata alla base. Anche in questo, però, il comportamento del mondo editoriale parla da sé: invoca i micropagamenti, ma si coalizza per cercare nuove soluzioni pubblicitarie; invoca normative antitrust contro i monopoli, ma poi chiede aiuti per difendersi dalla concorrenza del web; chiede che la rete non si appropri dei contenuti, ma poi ne fa quotidiana incetta. Soprattutto, si predica per i pagamenti, ma senza muovere alcun passo in questa direzione (Rupert Murdoch, almeno, è stato coerente con il proprio credo): nuova linfa per chi crede che gli imprenditori italiani siano abili ad agire soltanto quando lavorano con capitali altrui.
Il dibattito, semplicemente, è oggi sviluppato sui binari del non-sense. Questo perchè ancora si mettono a confronto i “giornali” e la “rete”, come se fossero due entità omologhe ed opposte. È questo un atteggiamento evidentemente parziale, strumentale e probabilmente doloso: nessun giornale online ha mai osato (o mai dovrebbe osare di) includere nella categoria del giornalismo tutto quel che viene venduto nelle edicole (e tutti sappiamo ciò che finirebbe nel calderone), mentre i giornali cartacei sono spesso pronti a confondere un blog ed un sito di news, un social network e l’ultima delle homepage personali.
La rete va messa a confronto con la carta, e giudicati entrambi come strumenti in tutte le loro qualità ed i loro difetti. I giornali vanno messi a confronto tra loro, a prescindere dal supporto usato, in termini di contenuti e di approfondimento. I giornalisti vanno messi a confronto tra di loro, a prescindere dall’editore e dal supporto, in termini di qualità delle informazioni e abilità espressive. Un mercato perfetto non richiede garanti e bollini, ma semplicemente chiarezza nei termini, trasparenza nelle informazioni e massima apertura. Laissez-faire, senza protezionismi né radicalizzazione delle posizioni: la mano invisibile farà il resto. Con estrema pazienza. E senza pietà.
L’immagine di copertina è ricavata da a BillRhodesPhoto