Per la prima volta negli Stati Uniti, lettori e ricavi pubblicitari (insieme) hanno superato quelli dei giornali a stampa. Questo è quanto traspare dall’ultimo Rapporto annuale sullo Stato dei Media, la bibbia in numeri del giornalismo americano del Pew Research Center.
«La migrazione verso il Web sta accelerando», commenta Tom Rosenstiel, direttore del Project for Excellence in Journalism, a sostegno delle cifre: il 46 per cento degli americani afferma di attingere a informazioni online almeno tre volte alla settimana, contro il 40 per cento che dichiara di farlo coi mezzi tradizionali.
Ovviamente i numeri dicono molto altro, ad esempio che i guadagni per i giornali a stampa sono crollati del 46 per cento in quattro anni e oggi si attestano a 22,8 miliardi di dollari. Nel frattempo, l’advertising online, sempre al centro di molte discussioni sulla complicata misurazione della sua reddività, ha prodotto nel 2010 la cifra di 25,8 miliardi. È questo il sorpasso che molti attendevano, ma non è ancora la panacea di tutti i mali.
Com’è noto, il rapporto fra redditività di un mezzo tradizionale e il Web è di quindici a uno, inoltre la maggior parte di questi flussi di denaro provengono dal search advertising, mentre solo l’uno per cento dei lettori americani accetta di pagare per informarsi, quindi il walled garden è un’arma a doppio taglio. Il risultato sono i tagli drastici al personale che hanno caratterizzato gli ultimi anni del giornalismo americano, dove ormai non c’è redazione che non sia stata ridotta di almeno il 30 per cento.
Se però ci si concentra solo sulla pubblicità, i dati del rapporto sono certamente considerevoli. Una lunga e approfondita analisi del centro di ricerca considera il trend possibile di crescita dell’ordine del 10 per cento ogni anno fino al 2014 ma, come spiega, «il problema per il giornalismo è che la crescita che si è verificata non è avvenuta nella pubblicità associata alle notizie».
La crescita della pubblicità è insomma la diretta conseguenza della crescita dei portali, degli aggregatori, dei motori di ricerca, mentre i giornali si tengono le briciole. La torta rimane più o meno la stessa, o cresce di poco, ma gli editori delle grandi testate si vedono ridurre la loro fetta e così reagiscono cercando partnership con i padroni dei dispositivi, come Rupert Murdoch con la Apple per il Daily sull’iPad.
Lo scenario? Il seguente: Apple, Google e altre aziende che vendono i loro dispositivi o applicazioni hanno gran parte del controllo su due componenti principali: contenuto e pubblicità. Non hanno necessità di controllare il mercato, ma di fatto lo sono, perché realizzano le terze parti che servono ormai a farlo camminare.
Gli inserzionisti dovranno imparare a districarsi tra diverse piattaforme, perché non è semplice scegliere e acquistare annunci pubblicitari universali: quel che va bene sul mobile non va bene sul Web, e l’applicazione è ancora tutt’altra cosa. Dal canto loro, anche i giornali devono preparare dei contenuti flessibili per ospitare advertising flessibili, anche se iltutto ha un costo molto elevato in termini di investimento tecnologico.
Infine, per i consumatori si tratta di imparare un nuovo mestiere: la selezione delle app. Nel solo febbraio 2011 sono state inserite 350mila nuove applicazioni nell’App Store di Cupertino e circa 90mila nel marketplace Android. Una giungla in cui è troppo facile spendere inutilmente denaro.