Per anni abbiamo creduto alla favola della standardizzazione. Cavi, sistemi operativi, schede di memoria: tutti quegli ingranaggi complessi nella macchina che fanno funzionare le grandi cose un giorno sarebbero stati una cosa sola o comunque meno di quanto lo siano adesso.
Eppure, è il 2019 e la favola non si è mai avverata. Il contesto dell’hi-tech va sempre più verso soluzioni proprietarie, non condivise, che solo in parte vengono minate dal sogno del gruppo internazionale USB-IF, che ha visto nello standard di Tipo-C un ottimo, e giusto modo, per far risparmiare tempo e soldi a utenti privati e aziende. Cerchi il cavetto del cellulare? Non importa, prendi quello delle cuffie. Vuoi ricaricare la fotocamera? Usa pure il filo che collega l’hard disk al computer. L’avvento della microUSB sembrava l’inizio di un panorama migliore, ingrigito da mille sigle e formati, di cui abbiamo perso il segno. Quali? USB-B, microUSB-B Superfast, USB A, C, X, Y. Insomma, che cos’è l’alfabeto dei robot?
Quando USB-IF ha annunciato la scorsa settimana che la USB 3.2 sarebbe stata rinominata con qualcosa senza senso come “Superfast +”, è diventato chiaro che le persone nel settore tecnologico non hanno più idea di come trasmettere, in maniera sintattica non semantica, queste novità al pubblico.
Eppure l’USB-C era stato progettato per sostituire tutto: USB 3.2, Thunderbolt 3, HDMI, DisplayLink e anche l’alimentazione. Ma non è così semplice. Il dispositivo è dotato di Thunderbolt 3 a velocità finita o mezza? Il convertitore può essere collegato a una presa HDMI standard? Il trasferimento dati è USB 3.2 gen 1 o USB 3.2 gen 2? Invece di semplificare, stiamo creando ancora maggior disordine.
Noi vogliamo solo prendere un cavo e fare quello che dobbiamo, caricare o sincronizzare. Spieghiamoci, io ci sto capendo sempre meno. Di recente è stato annunciato l’USB 4, che promette di accelerare le prestazioni usando Thunderbolt al posto dei tradizionali protocolli USB. Quindi questo un cavo Thunderbolt? Tecnicamente no, perché se lo fosse sarebbe retrocompatibile e invece no.
Capiamoci, anche lo standard HDMI è frammentato; la maggior parte dei cavi non ha nemmeno un’etichetta con la versione di riferimento, eppure vanno tutti bene. Basta sapere che con un HDMI 1.4a non si avrà il rendering 3D; con un HDMI 2.0, niente UHD. E poi le interfacce, mini HDMI e micro HDMI. Discorso simile per il Bluetooth, che ha sempre mantenuto un’eccellente retrocompatibilità, ma quando si tratta di nuovi device, che supportano il Bluetooth 5.0 ci si chiede perché entrino in gioco termini come Bluetooth LE su protocollo Bluetooth 3.0.
Insomma, anche qui è un campo minato. Ma forse l’ambito peggiore è quello delle schede di memoria, e nemmeno tutte. Prendiamo le SD. Abbiamo avuto schede SD full size, miniSD, microSD e ora c’è chi, come Huawei, si inventa le NM Card. Poi ci sono le sottoclassificazioni: una scheda microSD potrebbe essere SD, SDHC, SDXC (la più comune attualmente). Poi c’è il nuovo SD Express che promette cose incredibili ma richiederà dispositivi compatibili. Le schede SDXC supportano lo standard UHS (ultra high speed) e possono essere UHS-I, UHS-II o UHS-III. La loro capacità di registrare video viene misurata con un altro codice: V6, V10, V30, V60, V90. Infine, a seconda della scheda, vi sarà il file system predefinito: FAT, FAT16, FAT32 o ExFAT. È estenuante.
La linea di fondo è che prima di poter pensare ai cavi, dobbiamo anche sapere qual è lo standard massimo che il dispositivo può gestire e, cosa più importante, di quale scheda abbiamo bisogno per sfruttare al meglio le sue funzionalità. Forse è ora di fare qualcosa, per il bene dell’umanità. Vada per i progressi tecnologici, vada per la necessità delle aziende di vendere in continuazione pezzi, ma quando si trasloca per far spazio ai fili, allora è un problema.