Come previsto, tra il 15 e il 17 marzo si è svolta a Napoli la tre giorni dedicata ai problemi dell’e-government, con l’obiettivo dichiarato “di promuovere la crescita delle opportunità di lavoro, un migliore rapporto con le istituzioni e una vita semplificata per tutti i cittadini”. Si tratta del terzo Global Forum, manifestazione organizzata dal governo italiano sotto l’egida del’ONU e con la collaborazione dell’Ocse e della Banca Mondiale, dopo gli analoghi appuntamenti di Washington nel ’99 e di Brasilia nel 2000. Un appuntamento cui hanno risposto, quest’anno, i rappresentanti di 122 paesi, un migliaio di rappresentanti di governi, organizzazioni non governative e organismi del variegato mondo dell’associazionismo e del non-profit, nonché accademici e ricercatori di vario ordine e grado. Tema cardine dell’incontro, il cosiddetto digital divide, il divario tecnologico che vede il 90% degli accessi alla rete concentrati nei paesi in cui vive il 16% della popolazione mondiale.
Come previsto, il Forum è stato accompagnato da violente manifestazioni di piazza, culminate forse inaspettatamente in uno scontro di eccezionale durezza, che ha lasciato “sul campo” più di 200 feriti tra polizia e dimostranti. A quanto sembra “mai a Napoli si erano viste scene del genere. Neppure negli anni del terrorismo e della contestazione più dura.”
Non che questa sia una novità. Da Seattle in poi, sappiamo bene che quando ci sono di mezzo Internet, la globalizzazione e gli organismi internazionali, il rischio di scontri anche molto violenti è sempre incombente. La posta in gioco è alta, nientemeno che il divario (sempre crescente, sembra) fra ricchi e poveri, ed è quindi in un certo senso “ovvio” o quantomeno prevedibile che la polemica e le dimostrazioni di piazza passino il segno.
Meno ovvi, però, sono i motivi per cui le proteste (sacrosante) contro un uso delle tecnologie che anziché colmare le differenze fra ricchi e poveri tenda ad ampliarle, si concentrino contro un Forum come quello di Napoli, che raccoglieva popoli di tutto il mondo al fine di discutere proprio sul come riuscire a realizzare le condizioni per lo sviluppo autogovernato dei paesi più poveri. Ovvero, su come eliminare le disuguaglianze.
Vero è che proteste di questo tipo hanno sempre un grande valore simbolico, in cui consiste la loro prima ragione di essere: ma davvero massacrare e farsi massacrare in piazza da spranghe e manganelli è il modo migliore per manifestare il proprio dissenso? Un dissenso che, peraltro, lascia spesso perplessi proprio coloro che vorrebbe tutelare e difendere. Ecco infatti quanto ha dichiarato all’indomani degli scontri Bekele Gebremadhan, responsabile dei Sistemi informatici dell’ufficio del primo ministro etiope:
“Non so perché abbiano protestato in piazza, ma se l’hanno fatto per esigere che il divario fra ricchi e poveri venga colmato, sono d’accordo. Spero non l’abbiano fatto invece contro Internet, perché per noi quella è una tecnologia gratuita che porta enormi vantaggi e opportunità.”