Il diritto all’oblio compie esattamente un anno. Era il 13 maggio 2014 quando la Corte di giustizia dell’Unione Europea, rispondendo al reclamo di un cittadino spagnolo, Mario Costeja González, stabiliva che in assenza di una risposta da parte di un sito web toccava al motore di ricerca occuparsi della soppressione dei link a contenuti di terze parti ritenuti lesivi o eccessivi rispetto ai diritti della persona. Si stabiliva quindi quel che fu definito diritto all’oblio, cioè l’essere dimenticati per poter ricominciare la propria vita senza essere tormentati da un passato che Internet riproduce senza sosta. In un anno Google ha rimosso più di trecentomila URL.
Quella sentenza (pdf) è stata sviscerata e commentata in tutti i modi. Protagonista di un serrato dibattito giuridico e filosofico che non ha ancora trovato una soluzione, anzi, ha prodotto una spaccatura all’interno del comitato consultivo voluto da Google per ragionare sulla sua applicazione. I presupposti e le applicazioni del diritto all’oblio sono solo apparentemente facili, ma continuano a produrre eccezioni e interpretazioni limite. Inevitabile, dato che riguarda il rapporto tra privacy e diritto di cronaca, rilevanza pubblica e diritto personale. In ogni caso queste azioni procedono, cambiano a ritmo vertiginoso i numeri mentre resta immutato il dubbio se si stia facendo bene oppure se sia un errore.
I numeri aggiornati
Basta visitare la pagina di Google sulle richieste di rimozione, aggiornata proprio oggi, per avere un quadro dell’attività. Ad oggi, Google ha ricevuto 254.271 richieste per quasi un milione di URL, e ne ha rimossi 322.601, il 41,3%. La decisione della Corte di giustizia europea non si applica solo a Google, naturalmente, ma a tutti gli altri motori di ricerca operanti in Europa, tra cui Yahoo e Bing. Tuttavia, Google è il motore più utilizzato ed è anche l’unico a notificare agli amministratori dei siti web quando un link a una delle loro pagine web viene rimosso dai risultati di ricerca, e questo aiuta a dare corpo all’impatto della sentenza.
Interessante anche la classifica dei principali siti oggetto delle rimozioni, che vede Facebook al primo posto, poi i gruppi di Google, YouTube, Badoo, Twitter. La sezione riproduce anche 22 case history di applicazione del diritto all’oblio, citando qualche stato membro dell’Unione e ben cinque casi italiani. Due di questi riguardano una vicenda piuttosto cruenta e una per reati finanziari e sembra servire a spiegare al pubblico come la differenza sta nella notorietà, nel ruolo pubblico, non nell’elemento in sé che si vuole rimuovere. Un funzionario probabilmente si sentirà rispondere di no per un peccatuccio del passato, così non vale per tutti:
Una donna ci ha chiesto di rimuovere un articolo risalente a decenni fa, relativo all’omicidio di suo marito, in cui era citato il nome della donna. Abbiamo rimosso la pagina dai risultati di ricerca relativi al suo nome. (…)
Abbiamo ricevuto da una persona diverse richieste di rimozione di 20 link ad articoli recenti sul suo arresto per reati finanziari commessi in ambito professionale. Non abbiamo rimosso le pagine dai risultati di ricerca.
Diritto all’oblio e politica
Chissà che la sproporzione tra richieste e rimozioni in Italia non abbia relazioni con la passione del Parlamento per il diritto all’oblio. La sentenza della Corte europea è stata inserita – senza molto senso – nella vecchia versione della legge sulla diffamazione a mezzo stampa uscita dal Senato, e l’attuale disegno di legge sul cyberbullismo somiglia molto al diritto all’oblio nel suo funzionamento. Interesse e applicazioni sulla cui efficacia e buona o cattiva fede c’è sempre molto da dire.