Il processo che vede Google imputato per aver ospitato un video riprovevole su Google Video sta giungendo al termine. La nuova puntata ha visto protagonisti i PM di Milano Alfredo Robledo e Francesco Cajani, i quali hanno esposto le proprie richieste di condanna per i dirigenti Google implicati nella vicenda. E sono richieste importanti, tanto in termini assoluti quanto per il significato che una condanna significherebbe per la Rete italiana.
Secondo quanto riportato da Reuters, queste le richieste approntate: un anno di carcere per David Carl Drummond, ex presidente del cda e legale di Google Italy e oggi Senior vice presidente e dirigente del servizio legale; un anno per George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy, oggi in pensione; un anno per Peter Fleischer, responsabile policy sulla privacy per l’Europa di Google; sei mesi per Arvind Desikan, responsabile del progetto Google Video per l’Europa. In base a quanto trapelato, «nella requisitoria i pm hanno parlato della necessità che il diritto di impresa non calpesti la tutela dei diritti fondamentali, dicendo che non è un problema di libertà ma di responsabilità da parte delle imprese».
Il caso è importante poiché non solo va a derimere una controversia delicata e resa ancor più difficile dal coinvolgimento di un ragazzo con Sindrome di Down, ma tira in ballo anche l’assunto per cui i provider di servizi online debbano essere responsabili delle azioni degli utenti. Se l’assunto dovesse essere accettato, infatti, il rischio d’impresa potrebbe diventare eccessivamente gravoso e chiunque ospiti in Rete il prodotto degli utenti dovrebbe calcolare di doverne pagare per responsabilità oggettiva in caso di reato.
Google ha difeso il proprio operato sottolineando l’immediata rimozione del video nel momento stesso in cui la segnalazione è giunta al gruppo. Al tempo stesso Google rivendica l’impossibilità e l’inopportunità di un controllo capillare e personale sui vari contenuti immessi: si lascia alla sensibilità della community il compito di notificare i contenuti delicati e Google si fa conseguentemente carico di verificare ed eliminare qualsiasi unità controversa. Spiegava lo scorso 1 Ottobre Marco Pancini, European Senior Policy Counsel di Google, in occasione della relativa udienza: «abbiamo voluto fornire informazioni tecniche sul funzionamento di Google Video e dei siti di sharing, evidenziando come l’uso di un sistema censorio preventivo basato su parametri quali le keyword sarebbe altamente fallace. Affidare il controllo agli utenti mediante le procedure di segnalazione dei video offensivi, invece, permette una efficacia molto maggiore […] Da un punto di vista filosofico-politico si può osservare che la compatibilità di delitti come la diffamazione e, in misura minore, le violazioni della privacy con l’architettura ed i principi di una società libera sia aperta a discussioni. […] è proprio nella tutela di opinioni discutibili e, talora, ripugnanti che la libertà d’espressione si manifesta in tutto il suo vigore».
La famiglia del ragazzo è da tempo fuori dal caso, mentre l’associazione Vividown sta continuando a perseguire la via della condanna, alla ricerca di un ruolo di maggior responsabilità da parte di chi ospita online video e pagine prodotte dagli utenti. La questione di principio sembra a questo punto primaria rispetto alla vicenda in sé: dalla decisione del giudice potrebbero scaturirne pericolose derive per la libertà d’azione di chi offre spazi e servizi online.