Un tribunale australiano ha ritenuto Google colpevole di aver permesso a quattro inserzionisti di pubblicare messaggi pubblicitari ingannevoli sul suo motore di ricerca. Una sentenza che accoglie il ricorso dell’autorità garante australiana dopo una prima sentenza favorevole all’azienda californiana.
Torna in auge dunque la questione di Adwords, il sistema che gestisce le inserzioni pubblicitarie su Google: secondo Mountain View, gli inserzionisti dovrebbero essere considerati gli unici responsabili di eventuali truffe ai consumatori, ma il giudice Peter Jacobson che ha emesso la sentenza, non la pensa così e nel dispositivo invita Big G a stabilire un programma di conformità e a rivedere le sue regole «alla luce della decisione della Corte».
Una vicenda che ricorda da vicino quella dei falsi biglietti per le olimpiadi londinesi, con la differenza sostanziale che in quel caso vittime e carnefici non appartengono allo stesso paese e Google vi aveva posto subito rimedio. In questo caso, invece, la ACCC (Commissione australiana per la concorrenza e i consumatori) ha insistito nel suo iter perché insoddisfatta della causa persa il 22 settembre 2011 dopo quattro anni di battaglie legali che si concluse con una semplice multa di 28 mila dollari per Google.
La corte federale ha accolto il ricorso e le ha dato ragione: quattro di quegli annunci – tutti legati a siti di vendita che si spacciavano come rivenditori ufficiali di alcuni marchi, ad esempio auto – erano platealmente truffaldini e Google non ha fatto nulla per rimuoverli. Così commenta Rod Simms, presidente della commissione:
Questo ricorso solleva questioni molto importanti come il ruolo dei motori di ricerca come editori di contenuti a pagamento nell’era online, e questa sentenza è importante perché ha chiarito che Google e altri motori di ricerca sono direttamente responsabili per fuorvianti o ingannevoli risultati di ricerca a pagamento.
Una pubblicità in cui un account si spaccia come fornitore o venditore di un marchio che in realtà non rappresenta è un fatto commercialmente grave, non c’è dubbio. La novità della sentenza risiede nel fatto che si considera la query come una forma di garanzia implicita dell’identità dell’inserzionista, cioè non si concentra solo sulla differenza tra ricerca e risposta, ma sulla corresponsabilità del motore di ricerca, fornendo l’URL, cioè una informazione, nello stabilire quell’inganno.