Al contrario di quanto si potrebbe essere portati a pensare, qualsiasi opera o manufatto digitale non è per definizione eterno. O, meglio, non è in alcun modo assicurato che gli strumenti (i software) in grado di interpretarne il contenuto saranno disponibili in un lontano futuro. Questo rappresenta un pericolo concreto per la conservazione dell’arte digitale.
Un nuovo progetto messo in campo da Google Arts & Culture affronta la questione di petto, grazie a una collaborazione con Rhizome, organizzazione non profit creata nella metà degli anni ’90 e impegnata fin da subito a garantire che le opere digitali (artwork, musica, scritti ecc.) possano essere fruite anche una volta che i loro software diventano obsoleti. L’iniziativa è presentata oggi sul blog ufficiale di bigG da un post che reca la firma di Vint Cerf, uno dei “padri di Internet” e dal 2005 in carica presso il gruppo di Mountain View con il ruolo di Chief Evangelist.
L’arte digitale richiede un lettore e, spesso, un software in grado di visualizzarla, riprodurla e offrirne esperienza. E come accade con i software, i browser e i file che vengono aggiornati a nuove versioni o diventano obsoleti, anche l’arte digitale (quella prodotta con computer e software, digitalizzata o la riproduzione di opere originariamente in formato fisico) rischia di scomparire.
Garantire che una qualsiasi forma d’arte possa essere tramandata ai posteri significa trasmettere alle future generazioni la conoscenza di chi siamo, fornire loro una testimonianza tangibile della nostra cultura, delle modalità d’espressione che hanno caratterizzato il nostro tempo. Sulle pagine del Google Cultural Institute è possibile trovare le prime opere digitali “conservate” dall’istituto: uno dei primi giochi per computer dedicato alle bambine, una primitiva interazione artistica con i browser Web e una collezione di scatti presi da Instagram.