Poco meno di un anno fa arrivò da Google un’affermazione dai toni forti: “Il machine learning cambierà il mondo”. Una dichiarazione d’intenti, quella del gruppo di Mountain View, quasi un proclama. Oggi, anche alla luce di quanto svelato negli ultimi mesi e in particolare all’evento I/O 2017 di questi giorni, possiamo asserire che il processo è in atto ed è irreversibile: le potenzialità del machine learning sono enormi e il suo raggio d’azione è pronto a estendersi in ogni dove.
Per riconoscerne l’influenza è bene, anzitutto, non fare confusione: il machine learning non è l’intelligenza artificiale. Ciò che fa il machine learning è creare dei pattern, partendo da un database di esempi e informazioni, applicando così un metodo diverso da quello tradizionale per programmare il funzionamento di un software o di un computer. È un sistema di apprendimento.
Prendiamo in considerazione gli annunci più recenti e legati esclusivamente all’evento di San Francisco: Google Play Protect ricorre al ML per analizzare miliardi di applicazioni in tutto il mondo ogni giorno alla ricerca di anomalie o vulnerabilità, la piattaforma Google Foto ne sfrutta le abilità analitiche per il riconoscimento facciale e per suggerire le condivisioni, la funzionalità Smart Reply per compilare autonomamente risposte ai messaggi ricevuti con lo stile personale dell’utente, Google for Jobs per mettere in contatto le aziende con posizioni lavorative aperte e i possibili candidati, l’altoparlante Home per comprendere le esigenze di chi si trova in casa e fornire informazioni puntuali e Google Lens per analizzare qualsiasi oggetto o soggetto inquadrato dalla fotocamera degli smartphone. L’elenco degli esempi potrebbe proseguire citando i miglioramenti apportati al servizio di traduzione, la ricerca medica e persino esperimenti divertenti come AutoDraw.
Ciò che rende particolarmente interessante tutti questi nuovi sviluppi nel campo IA è il fatto che entrino in azione in modo invisibile, impercettibile per gli occhi di chi ne fruisce. Non a caso il compito degli assistenti virtuali è proprio quello di operare in modo diretto e colloquiale con l’utente, nascondendo la complessità degli algoritmi e dei sistemi che ne regolano il funzionamento, adottando anzi un linguaggio d’interazione colloquiale e quasi informale.
Tutto assume connotati ancor più affascinanti se si pensa che si è appena cominciato a scalfire la superficie di ciò che sembra aver tutte le carte in regola per essere una vera e propria rivoluzione del mondo informatico e non solo. Quella che è forse la migliore definizione di machine learning ce l’ha fornita Behshad Behzadi (Distinguished Engineer di Google Assistant) in occasione di un recente incontro presso la sede milanese del gruppo:
Il machine learning è conversazione.