La tesi è lanciata da Pat McCarthy su WebProNews e fa leva su una semplice sequela di evidenze: Google avrebbe dato vita un sistema in grado di premiare i propri clienti, creando così una bolla a PageRank alto ed inquinando conseguentemente il PageRank stesso con le proprie mani. McCarthy sciorina la propria dimostrazione lasciando intendere come l’ipotesi del dolo non sia da scartare, anche se da Mountain View giungono ufficiose prese d’atto seguite da ammissioni di colpa e promesse di un intervento.
Il primo indizio giunge da una pagina in cui vengono elencati alcuni partner enterprise: per comparire su quella pagina occorre siglare un accordo del valore di 10.000 dollari ed ogni pagina linkata può vantare un PageRank pari a 7. Non ci sono altri dati a dimostrazione del misfatto, ma il ragionamento funziona partendo dall’antitesi: se Google non ha creato tale sistema “clientelare” per scelta precisa, perchè non ha aggiunto l’attributo “rel=NOFOLLOW” ai link?
Ad aggravare la situazione v’è un ulteriore esempio similare su Google Video: i link hanno tutti l’attributo NOFOLLOW, tranne i link verso i video dei partner del motore. Anche in questo caso il link da un sito dell’ecosistema Google va a premiare il PageRank, pilotando così giocoforza il sistema di indicizzazione a favore di quanti sono in collaborazione commerciale con il motore di ricerca (aspetto esplicitamente vietato dalla policy aziendale: «non vi è intervento da parte di persone o manipolazione dei risultati; ecco perchè gli utenti si fidano di Google come di una fonte di informazioni oggettive non influenzata dal posizionamento a pagamento»).
La replica immediata da parte del motore relativamente a quest’ultimo aspetto giunge dal blogger Matt Cutts il quale cita uno scambio epistolare avuto con alcuni tecnici Google Video. Il tutto sarebbe frutto di un involontario errore dovuto ad un codice di composizione della pagina differenziato nelle sue varie parti: non c’è dolo, dunque, ma solo una semplice (sospetta) disattenzione.