Il gruppo di Mountain View è da sempre impegnato nella lotta alla pirateria, analizzando oltre 250.000 segnalazioni ogni settimana relative alla presunta condivisione online non autorizzata di materiale protetto da diritto d’autore. Bloccare l’indicizzazione dei siti che offrono accesso a risorse P2P illegali potrebbe però non essere la strada giusta da percorrere per arginare il problema, o almeno non la più efficace. È questo il parere di Theo Bertram.
Intervenuto alla conferenza “Follow the Money: Can The Business of Ad-Funded Piracy Be Throttled?” organizzata dalla University of Westminster di Londra, il policy manager per la divisione britannica di Google ha parlato delle modalità con le quali il motore di ricerca intende intensificare la morsa nei confronti dei pirati, adottando un approccio relativamente nuovo e che, stando all’esperienza recente, ha dimostrato le sue potenzialità: bloccare il business generato sui siti in questione dalla visualizzazione dei banner pubblicitari. In questo modo sarebbe possibile limitare l’afflusso di denaro verso coloro che gestiscono le piattaforme, mettendone di fatto in ginocchio l’attività. A bigG non spetta però il ruolo di giudice.
Non è il lavoro di Google girare per il Web con l’intento di dichiarare se i siti sono legali o illegali, ma se Coca-Cola viene da noi dicendo “ecco una lista di 500 siti dinamici su cui non vogliamo vedere le nostre pubblicità” è un’altra cosa. Si tratta di una scelta di marketing per il brand.
Secondo Bertram, far chiudere una singola piattaforma o farla scomparire dalle SERP ha ben pochi effetti positivi per le industrie musicale, cinematografica e del software, soprattutto se si prende in considerazione il medio-lungo periodo. La dimostrazione è data da quanto accaduto in seguito al sequestro di Megaupload e Megavideo, con il traffico legato al file sharing che nel giro di qualche mese non è scomparso, ma solo spalmato su altri siti.
Il differente approccio proposto da Google può certamente risultare efficacie, ma solo se non si tiene conto di due fattori: necessita della collaborazione attiva delle singole aziende che investono in pubblicità e, soprattutto, andrebbe a colpire esclusivamente le piattaforme che praticano la diffusione non autorizzata dei contenuti a fini di lucro. Una mossa di questo tipo, per ovvie ragioni, non avrebbe alcun effetto sulle community che alimentano il traffico peer-to-peer senza alcun obiettivo in termini monetari.