La storia raccontata dall’Huffington Post è quantomeno peculiare. Da una parte c’è Google, a difendere il proprio operato ed il proprio diritto di difendere gli advertiser dal click fraud. Dall’altra c’è Aaron Greenspan, nome noto per essere colui il quale a suo tempo ha rivendicato la paternità sul progetto Facebook (per poi trovarsi spodestato prima da ConnectU e quindi da Mark Zuckerberg). La vittoria, infine, andrà a Greenspan, con i legali Google a protestare per la scelta del giudice. Ma è la causa in sé a destare interesse.
Aaron Greenspan ha affidato all’Huffington Post un racconto dettagliato della propria avventura con Google (non c’è la versione della controparte, occorre fidarsi del racconto esistente), partendo dalle esperienze da utente, quindi da inserzionista deluso di AdWords, infine da fruitore di AdSense. Tutto si sviluppa, infatti, per mezzo di un dominio acquistato da Greenspan il quale, notando il forte traffico in entrata nonostante i contenuti nulli del sito, ha deciso di approfittare della cosa per trarne giovamento tramite AdSense. Tutto andava bene, finché un giorno Google non ha disattivato l’account di Greenspan senza addurre motivazioni concrete. Semplicemente, a login effettuato, l’interfaccia restituiva un messaggio indicante una posizione di «pericolo» adducente al fatto che il dominio potesse essere stato utilizzato a fini di click fraud.
11 dicembre: due giorni dopo la disattivazione dell’account, per combinazione o per curiosa concomitanza, Google apre il propri programma AdSense for Domains, dedicato ai domini parcheggiati. Greenspan compie un ultimo atto di buona volontà tentando l’iscrizione al programma per aderirvi con il proprio sito, ma Google ha respinto ogni richiesta ulteriore. Anche il nuovo programma è inaccessibile e l’account rimane off limits con tanto di 721 dollari precedentemente accumulati e la cui riscossione risulta a questo punto inaccessibile.
Tra le parti non v’è più stato incontro alcuno. Greenspan ha contattato AdSense, ma si è imbattuto nella non esistenza di un servizio di assistenza clienti. Ha quindi contattato i legali del gruppo, ma si è scontrato contro un muro di gomma che ha impedito ogni richiesta diretta. Impossibilitato ad avere chiarimenti, Greenspan si è quindi rivolto ad un giudice, ottenendo un’udienza per i primi giorni di marzo.
Il dibattito in tribunale può essere riassunto in uno scambio di battute. «Possiamo cancellare l’account per qualsiasi motivo» ha attaccato la rappresentanza Google. «Non per il colore dei miei occhi» ha risposto Greenspan. Il giudice, non ravvisando motivo alcuno dietro la decisione di Google, ha deciso per una scelta conservativa: il gruppo dovrà rimborsare a Greenspan i 721 dollari accreditati all’account sospeso e dovrà 40 dollari ulteriori per spese ulteriori legate al procedimento legale.
A sentenza pronunciata, spiega ancora Greenspan, i legali di Mountain View avrebbero protestato: «Non è giusto! Cosa succederebbe se tutti coloro i quali hanno l’account cancellato denunciassero Google?». A quest’ultima domanda non c’è stata risposta, ma Greenspan offre la propria rivalsa: «Dovrebbero».