Fior di teorici hanno visto nel Web lo strumento che avrebbe disgregato le regole della grammatica riportando la lingua scritta verso la fluidità della comunicazione orale. Se le prove di questo processo sono ampiamente ritrovabili disseminate in ogni angolo della rete, Google inverte parzialmente tale processo ripristinando una certa rigidità di regole e riconfermando l’importanza di un codice ferreo e prestabilito.
Tale scelta strategica emerge nelle promozioni accettate dal motore di ricerca. Talune parole sono infatti sconsigliate, e tutto ciò non in quanto formalmente proibite o tipicamente scurrili, quanto per la necessità di attenersi ad un minimo sistema grammaticale. Il New York Times, testata che a firma di Sarah Lefton ha portato a galla la questione, suggerisce come esempio l’espressione “kk”, forma usata sul web in sostituzione di “Va bene”, “ok”: pur non essendo ovviamente un errore, tale forma non rientra in una comune forma grammaticale e non può dunque essere accettata da Google nella pubblicazione delle promozioni.
Interrogato il direttore AdWords David Fischer, questa è la motivazione apportata alla scelta di Google: «stiamo tentando di creare pubblicità che abbiano un minimo basilare livello di proprietà grammaticali tali da rendere la promozione chiara agli utenti». Fisher ammette il bisogno di una certa qual elasticità che non soffochi la creatività (emblematico l’esempio dello slogan Apple “Think different”), ma traspare una esplicita richiesta alla categoria dei copywriter affinchè le promozioni si attengano a certi accettabili canoni di comprensibilità.
Google ha predisposto inoltre un sistema automatico che vaglia le varie promozioni accordate al fine di trovare e filtrare neologismi, espressioni scurrili, forme inappropriate e piccoli stratagemmi quali la ripetizione di punti eslamativi. Interventi similari sono stati adottati anche da servizi omologhi quali MSNSearch, Altavista e Overture.