È solo aprile e il 2019 è già piombato addosso a Google come una mazzata sul collo. L’11 gennaio è morto il Chromecast Audio, il 15 gennaio YouTube ha rimosso l’opzione del rapporto sulle annotazioni, Google Fiber ha abbandonato il supporto per l’IoT il 13 febbraio mentre la divisione portatili e tablet di Big G è stata ridotta il 12 marzo. Finito? No: Google Allo ha smesso di funzionare il 13 marzo e lo studio VR “Spotlight Stories” ha chiuso i battenti il 14 marzo. Proseguiamo: l’abbreviatore di URL goo.gl e è stato tagliato il 30 marzo, un giorno prima che Gmail smettesse di accettare lo standard IFTTT di Gmail e che, il 2 aprile, si celebrasse un grande trapasso, una sorta di Google Funeral, con la dipartita di Google+ e Inbox. Amici di Mountain View, forse è troppo.
Siamo nel nuovo anno da 91 giorni e Google sta accumulando un numero impressionate di knockout, con pochi precedenti. Se prendiamo le date ufficiali di chiusura che si sono già verificate nel 2019, un prodotto, una funzionalità o un servizio a marchio Google sono morti in media ogni nove giorni circa. Alcuni di questi sono arrivati al ciclo di fine vita con una certa programmazione (tipo Google+), altri no: che motivo c’era di terminare Inbox, un servizio che ha sempre funzionato a dovere senza problemi di sorta? Il fatto è che ognuna di queste azioni ha conseguenze negative per il brand e il flusso incessante di spegnimenti rende Google più instabile e inaffidabile di quanto non sia mai stata. Basti pensare che prima dei giorni nostri, Mountain View aveva detto basta a Google Wave nove anni fa e a Reader sei anni fa. Poi qualcosa è cambiato.
Anche perché Google è una cosiddetta “software-company”. Che si tratti di cloud, app, risorse per gli sviluppatori, sistemi operativi o quant’altro, la gente ha bisogno di fidarsi della multinazionale, dei suoi progetti, se quest’ultima vuole ottenere successo. I gruppi di clienti, privati o professionali, devono assicurarsi che le piattaforme su cui spendono tempo e denaro siano qui per restare a lungo, non più o meno un decennio, altrimenti si vira altrove. Che fine hanno fatto le sponsorizzazioni su Plus e il lavoro sulla AI di Allo? Nel vuoto, niente di più.
La tendenza di Google verso gli “shoutdown” è pari all’amore che ha per la creazione di nuovi prodotti. Spesso dimentichiamo che Big G fa parte di un gruppo ben più ampio, Alphabet, dove c’è il rischio che un’azienda lavori su qualcosa che esiste già. Ecco perché Google spesso finisce col creare un doppione di ogni grossa attività su cui scommette: molti team non comunicano e finiscono per affrontare lo stesso problema con idee diverse. Un esempio? La divisione di Gmail è sotto l’ombrello delle Google Apps, così come i professionisti dietro Inbox, dedicati però a progetti più innovativi. Entrambi hanno finito con il realizzare buonissimi prodotti, uguali sotto certi punti di vista.
Su Wikipedia, il numero di prodotti e servizi di Google fuori produzione inizia ad avvicinarsi pericolosamente a quello dei servizi attivi. Esistono interi siti dedicati ai fallimenti della grande G, come killedbygoogle.com, The Google Cemetery e didgoogleshutdown.com. E non sono sicuro che Google possa fare qualcosa per aiutare la sua reputazione a questo punto. Del resto, ogni volta che Google spegne un prodotto la sua fama perde pezzi. Una chiusura fa sentire gli utenti traditi, rende più difficile la fidelizzazione ad altri servizi e più complesso lanciare nuove idee sul mercato. Questo è il momento buono per la concorrenza di proporre surrogati delle piattaforme attuali di Big G, puntando su stabilità e durevolezza, piuttosto di un ricambio generazionale che non fa bene a nessuno. Proprio a nessuno.
E allora #buongiornounCaffo