La guida autonoma è una realtà tecnologica che non è ancora diventata realtà sociale. Difficile prevedere se e quando lo diventerà: secondo alcuni commentatori è solo questione di pochi anni, mentre secondo altri le grandi aziende tech – comprese quelle che non si sono mai occupate di automotive finora – stanno usando la self-driving car come prototipo per gli esperimenti più arditi e così rivenderli separatamente sul mercato. Analytics, sensori, interfacce, necessari per ottenere la guida autonoma, sono tools molto appetibili sul mercato per usi anche diversi. Oltre la tecnologia c’è però la cultura: i millenials sono alle porte della loro maggiore età, e per loro “accesso” è più importante di “possesso”.
Questo è il vero balzo culturale sullo sfondo: apprezzare l’utilizzo efficiente, controllato, di un mezzo senza possederlo. La capacità dei sistemi elettronici di affrontare meglio dell’uomo le sfide quantitative del consumo energetico è ormai evidente. Meno la possibilità di affidarsi completamente a queste stesse tecnologie per affrontare gli imprevisti. Le sperimentazioni dei costruttori di automobili a guida autonoma si concentrano su questo punto perché è questione di fiducia. Esattamente come 60 anni fa era impossibile aggiungere le cinture di sicurezza alle auto perché il consumatore le avrebbe respinte (simbolo di una minore sicurezza dell’auto, anche se era il contrario), la scommessa economica è vendere autovetture con airbag esterni per i pedoni, che non fanno quasi rumore, che guidano al posto dell’uomo in quasi tutti gli eventi e per oltre il 90% del tempo di percorrenza e rispettano rigidamente i limiti di velocità e la distanza di sicurezza. Quanti avvertiranno questo passaggio come evolutivo e quanti invece sentiranno una repulsione, avvertiranno una minore sicurezza personale, anche se è un pensiero irrazionale?
In uno dei primi articoli di giornale scritti negli Usa sull’automobile, datato 1897, il reporter dell’epoca così descrisse le sue emozioni:
C’è un senso di incompletezza. Sembrava di essere seduti su un grande carretto, spinto da una forza invisibile e guidato da una mano nascosta. Ma poco a poco ho sentito che non avevo bisogno della protezione di un cavallo davanti a me.
All’epoca, durante la convivenza auto/cavalli, si scrissero anche leggi che prevedevano un uomo con una bandiera che annunciasse l’arrivo di una carrozza meccanica per la sicurezza dei passanti. Le reazioni furono le più diverse, ma sorprendentemente quella tecnologia fu accolta con eccezionale velocità.
Secondo gli psicologi dell’adattamento, i conducenti sono già disposti a rinunciare ai loro compiti, lo fanno già quando si affidano a un taxi, a un mezzo pubblico, quando condividono un viaggio. Lo fanno, soprattutto, quando affidano la scelta della strada ad un navigatore satellitare limitandosi a ricevere ordini invece di impartire strategie di viaggio. La vera questione è stabilire ai vertici quali siano le responsabilità: chi è responsabile se una self-driving car provoca lesioni agli altri? Gli ingegneri che hanno programmato il computer di bordo? Il produttore? Il proprietario? E quando una macchina a guida autonoma vìola un codice, chi viene multato? Sulle strade condivise da veicoli umani e robotici, il numero di possibili conflitti etici e di assicurazione legale sembra infinito.
Ecco perché lo scenario più puro, ma spostato molto più in avanti rispetto ai prossimi cinque/dieci anni, è l’infrastruttura completamente intelligente, dove reti e autovetture si scambiano informazioni tra di loro. Insomma, l’habitat ideale delle self-driving è un gigantesco circuito chiuso, come la metropolitana, ma sulle strade aperte. Col risultato che anche concetti consolidati come la “maggiore età” o l’idoneità per guidare saranno spazzati via. Tutti potranno salire sulle auto, anche gli affetti da gravi disabilità, gli anziani, anche i bambini per andare a scuola. La rivoluzione è appena agli inizi, e toccherà agli intellettuali fornire materia per buone leggi politiche.