La Camera ha approvato il testo che disciplina l’attività di ristorazione in abitazione privata, altrimenti nota come home restaurant, la pratica tipica da sharing economy che organizza cene presso le case private con chef e cucina professionale o semi professionale. Ora il provvedimento andrà in Senato, ma sta già facendo discutere gli operatori del settore, come in fondo era anche prevedibile: si tratta della prima legge italiana, e tra le prime in Europa, che cerca di normare questo settore che fin qui è cresciuto spontaneamente.
Prendete il mondo del food, l’economia spinta dall’online, e un vuoto legislativo: gli ingredienti perfetti per una discussione senza fondo tra opposti interessi, quelli delle realtà consolidate – ad esempio i ristoranti – e quelli delle realtà nascenti – ad esempio la catena di homerestaurant.it oppure società digital come Gnammo. Questi opposti interessi tenderanno sempre a considerare un testo di legge come una liberalizzazione pericolosa oppure viceversa una normazione soffocante. Gli esempi sono molti, basti pensare al trasporto pubblico e alle tensioni tra tassisti e Uber, e a modelli che hanno portato alla definizione di “uberizzazione“. Il testo di legge (pdf) è stato votato a larga maggioranza dopo una discussione piuttosto lunga ma costruttiva tra maggioranza e opposizioni e ha la caratteristica, non per forza negativa, di scontentare un po’ tutti. Ma è davvero così sbagliata?
Numeri e paletti
Il settore del #socialeating sta crescendo parecchio, non si poteva più rimandare. Questo è l’assunto che ha convinto il Movimento Cinque Stelle a proporre per primi un disegno di legge che poi è stato preso in carico in Commissione attività produttive dal relatore del PD Angelo Senaldi. Il mercato generato da queste attività supera i 7 milioni di euro l’anno per 40 mila eventi e circa 300 mila persone coinvolte: niente di tutto questo è minimamente regolato, sia come standard di sicurezza alimentare, sia considerando che sono organizzate in abitazioni private, che quindi potrebbero essere anche condominiali. Ci voleva una legge che da un lato definisse il fenomeno e limitasse l’attività in modo che non somigliasse né a un normale invito a cena tra amici né a un’attività di ristorazione professionale e continua. Senza cascare nella descrizione olografica di cene informali e buona cucina di mamme e zie, alle quali non può davvero credere nessuno: si tratta di affari, e di quelli facilmente esentasse per i cuochi (per le piattaforme è più complicato).
Il metodo è stato un classico: mettere dei paletti su coperti e guadagni. L’accordo trovato è massimo 500 coperti l’anno e guadagno non superiore ai 5000 euro, prenotazioni e pagamenti solo digitali. Questi sono i tre paletti più rilevanti di una legge che però non è piaciuta alle realtà che ambiscono a lavorarci, né a coloro, anche in Aula, che denunciano il vizio legislativo di pareggiare realtà concorrenti verso le pastoie burocratiche invece che verso la semplificazione (il resoconto del dibattito prima del voto è istruttivo). Di per sé sarebbe anche vero, ma preoccuparsi di normare ciò che altrimenti farebbe concorrenza sleale è obiettivo più facile e veloce che semplificare l’intero corpus burocratico e fiscale delle attività commerciali.
La legge in sintesi
Il testo unificato delle diverse proposte di legge di iniziativa parlamentare sulla ristorazione in abitazione privata è di sette articoli. Il primo articolo definisce l’oggetto dell’attività, richiamando la recente comunicazione della Commissione Europea sull’economia collaborativa. Nel secondo si definisce l’home restaurant:
L’attività finalizzata alla condivisione di eventi enogastronomici esercitata da persone fisiche all’interno delle unità immobiliari ad uso abitativo di residenza o domicilio, proprie o di un soggetto terzo, per il tramite di piattaforme digitali che mettono in contatto gli utenti, anche a titolo gratuito e dove i pasti sono preparati all’interno delle strutture medesime.
I soggetti sono tre: il gestore, il cuoco e il cliente. Gli obblighi sono considerati nell’articolo tre: informare con trasparenza, pagamenti solo con transazioni elettroniche, polizza assicurativa per l’operatore cuoco, trenta minuti di anticipo di inserimento evento nella piattaforma di prenotazione, la comunicazione al comune competente della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). Per lo svolgimento di attività di home restaurant, non è invece richiesta l’iscrizione al registro degli esercenti il commercio. Dei limiti economici si è già detto: non più di 500 coperti l’anno e cinquemila euro di proventi.
L’articolo cinque definisce i requisiti degli immobili ad uso abitativo e qui c’è un altro punto interessante, una norma anti-AirBnb: fare home restaurant non comporta la modifica della destinazione d’uso dell’ immobile e prevede che l’attività non possa essere esercitata nelle abitazioni con finalità turistico-ricettive per brevi periodi. In soldoni, non si può affittare un appartamento e poi organizzarci pure delle cene. Per una piattaforma globale sarebbe un invito a nozze.
In pillole:
- Home restaurant: condivisione di eventi enogastronomici esercitata da persone fisiche all’interno di un’abitazione privata.
- Tre soggetti: il gestore della piattaforma che si occupa della trasparenza e dei pagamenti, il cuoco che risponde a livello professionale e assicurativo, il cliente che ha diritto a determinati standard.
- Sotto i cinque eventi nell’anno solare e i cinquanta clienti, l’attività non è home restaurant ma social eating e non è soggetta alla legge.
- Le transazioni di denaro sono operate mediante le piattaforme digitali e avvengono esclusivamente attraverso sistemi di pagamento elettronico.
- Il cuoco non può superare i 500 coperti e i 5000 euro di introiti. Questi limiti vanno in capo a lui e all’abitazione, di chiunque essa sia. Le attività di controllo saranno determinate da un decreto apposito del MISE.
- Le abitazioni rispondono alle normative vigenti sull’igiene e l’attività non cambia la destinazione d’uso né serve l’apertura di un’attività commerciale.
La legge sulla sharing economy
Forse però regolare soltanto l’home restaurant invece di aspettare la legge sulla sharing economy è stato un azzardo. Molti credono infatti che sarebbe stato meglio inquadrare l’intera sharing economy, come pensa di fare il testo partorito dall’Intergruppo parlamentare per l’Innovazione che attende di andare in Commissione e fare il suo iter. A proposito di questa legge, Veronica Tentori (PD), dell’Intergruppo, pensa in effetti che la legge quadro abbia un ruolo nell’ordinare l’intero fenomeno e aiutare a portarlo alla luce. Per ora si sono confrontati in Commissione ristretta. Tuttavia, un passaggio come questo potrebbe anche essere istruttivo:
Per la prima volta si affronta parzialmente la sharing economy. È stato fatto un lavoro importante dai gruppi, e credo sia incoraggiante in vista della legge quadro che cercherà, come questa sull’home restaurant, un accordo bipartisan. Questo primo passaggio secondo me è positivo, migliorabile ma positivo.
Camera ha approvato legge #homerestaurant, un ambito della #sharingeconomy. Ora va al Senato. Qui mie riflessioni https://t.co/LcrJWZRrK4
— Veronica Tentori (@VeronicaTentori) January 19, 2017
Migliorabile nel punto più controverso: perché combinare il limite di guadagno con quello dei coperti? La stessa legge sulla sharing ha al suo interno delle norme fiscali più morbide e si concentra sulle dimensioni.
A mio parere si potrebbe eliminare il limite di guadagni, e mantenere l’attenzione sul numero di coperti. Comprendo le perplessità sulla parte fiscale. Ora vedremo cosa faranno in Senato.