Difficile crederci, ma è tutto vero: la battaglia tra i distributori di musica digitale e le etichette potrebbe trovare un nuovo orizzonte di sfida basato sul fatto che le etichette pretendono ulteriori royalties da chi distribuisce musica digitale in rete. La questione di principio sollevata appare oltremodo strumentale, ma porta già la firma di ASCAP (American Society of Composer, Authors and Publisher) e BMI (Broadcast Music Inc.) ed impone la discussione sul tema.
L’obiezione sollevata è quella per cui il download possa equivalere ad una performance pubblica piuttosto che ad una fruizione privata. In questo caso l’acquisto dovrebbe imporre un prezzo maggiore e minori margini per chi distribuisce. La regola dovrebbe essere estesa peraltro anche agli streaming ed ai video online, nei quali può valere lo stesso discorso per le colonne sonore. Il distinguo tra performance pubblica e performance privata sembra agli effetti decadere nel contesto dei download (la fruizione è intesa a pc), ma così non è per ASCAP e BMI che rivendicano pertanto una fetta maggiore della torta.
La prima replica è giunta dalla Digital Music Association (DiMA), la quale annovera al proprio interno gruppi quali Apple, Amazon, Microsoft, MySpace, YouTube, RealNetworks, Nokia ed altri tra i grandi gruppi che oggi investono nella musica in rete. La DiMA, in associazione con ESA, MPAA, NARM, EMA ed IFTA, ha espresso un comunicato dai toni estremamente chiari: «Gli autori e gli editori sono retribuiti equamente per i download digitali quando i diritti di riproduzione e distribuzione sono licenziati. Non c’è alcuna giustificazione per caratterizzare i download come performance per richiedere royalties aggiuntive, e questo è il motivo per cui i persistenti sforzi dell’ASCAP sono stati più volte respinti dalle agenzie governative USA e dalle Corti Distrettuali».
Quel che stona maggiormente nelle accuse ASCAP/BMI è la richiesta di royalties anche per i 30 secondi di preascolto utili a presentare un brano in fase di vendita: secondo le etichette trattasi di una performance ad ogni effetto, parificabile a ciò che viene licenziato alle trasmissioni radiofoniche. La strumentalità delle richieste è al centro dell’opinione di Jonathan Potter, executive director della DiMA: «Stanno facendo pressioni su Apple perché sanno che Apple sta facendo un mucchio di soldi. Ma queste compagnie dovrebbero essere contente del fatto che Apple ed altri servizi vendano musica e generino milioni, forse decine di milioni, in royalties».
Dalla parte dell’accusa, però, le ragioni sono basate su di un confronto con il mercato tradizionale. David Renzer, Presidente e CEO della Universal Music Publishing Group, spiega che Apple non versa un solo centesimo per i diritti di performance, il che costituisce una forte anomalia. La DiMA a tal proposito ha però evidenziato un passaggio storico nei modelli di fruizione: nel download non c’è performance e pertanto tali diritti non sono dovuti.
La sfida è sul piano dialettico, e sul piano legale le sensazioni non hanno valore: le considerazioni delle parti in causa hanno medesima dignità e solo l’interpretazioni delle tecnologie attraverso la lente della legge potrà stabilire come debba essere identificato concettualmente un download. Tra pubblico e privato, tra performance e meccanismo di vendita.