Nei giorni scorsi aveva fatto scalpore l’invio di raccomandate a migliaia di utenti italiani accusati di aver scaricato musica dal web: agli stessi era richiesta una penale di alcune centinaia di euro a compenso delle spese effettuate per le ricerche. Il tutto partiva dalla Peppermint Jam Records ed immediata è stata la reazione delle associazioni dei consumatori per cercare di far chiarezza su un caso che rischiava di creare un pericoloso precedente. Nelle ultime ore la svolta: il Garante per la Privacy ha deciso di costituirsi in giudizio a difesa delle persone coinvolte dalla denuncia.
Spiega un comunicato Adiconsum: «ci sono voluti 10 giorni, ma alla fine il Garante della Privacy […] si è convinto a veder chiaro in questa assurda storia che vede coinvolti oltre 5000 cittadini italiani. Ora i consumatori possono tirare un sospiro di sollievo, perchè al loro fianco, oltre Adiconsum, hanno l’istituzione più qualificata a far chiarezza sulla liceità della richiesta della Peppermint, cioè se tutto sia avvenuto rispettando i diritti di protezione dei dati personali, ovvero se questi diritti siano stati lesi».
Secondo quanto raccolto dal Sole 24 Ore, «nella lettera al Garante, Altroconsumo precisa che il Codice in materia di protezione dei dati personali vieta l’uso di comunicazione elettronica per accedere a informazioni archiviate nell’apparecchio terminale di un utente internet, per archiviare informazioni o per monitorare le operazioni dell’utente. L’uso della Rete in tali termini […] è consentito dal Codice solo per il tempo strettamente necessario alla trasmissione della comunicazione o a fornire uno specifico servizio richiesto dall’utente. […]. Se fosse in vigore anche in Italia l’istituto giuridico della class action, Altroconsumo l’avrebbe già promossa».
Risulta particolarmente interessante, a questo punto, l’intervista che Massimo Mattone (caporedattore Internet Magazine) ha registrato con l’avvocato Otto Mahlknecht dello studio legale Mahlknecht&Rottensteiner. Rispondendo alle specifiche domande di Mattone, l’avvocato ha spiegato dettagliatamente il modus operandi seguito durante le ricerche: «la casa discografica ha incaricato un investigatore, la società Logistep, esperta in antipirateria, per effettuare una ricerca riguardante la diffusione illegale della sua musica su reti P2P. La Logistep ha registrato l’indirizzo IP di quegli utenti che hanno messo a disposizione una determinata canzone e l’ora esatta di tale evento. Per verificare se il rispettivo file contiene veramente la canzone ricercata e non si tratti di un fake, ha fatto un download dell’opera messa a disposizione, controllando il rispettivo valore hash. I file inoltre sono stati salvati ai fini di prova».
L’avvocato spiega che l’iniziativa non ha fine persecutorio, ma al tempo stesso non fa scendere i toni della disputa: «molte persone […] aderiscono alla proposta di transazione della Peppermint, probabilmente perchè la somma richiesta è veramente ragionevole. Le altre sappiano che non la passeranno facilmente. Sicuramente, sarà difficile agire contro così tante persone, ma vorrei far presente che la prescrizione del diritto al risarcimento del danno avviene dopo cinque anni, per questo motivo la Peppermint ha molto tempo per tutelarsi. Se vuole, può chiamare in giudizio (gli utenti, ndr) uno dopo l’altro.
Massimo Mattone, infine, chiede all’avvocato un parere relativo all’iniziativa intrapresa da Adiconsum a tutela degli utenti sotto accusa. Questa, pari pari, la risposta:
Credo che le persone che si sono affidate a quest’organizzazione sono mal consigliate. Da quello che è stato pubblicato fino ad ora si evince che il problema dal punto di vista giuridico non è stato ancora “digerito”. Altrimenti non riesco a capire come mai si possa seriamente sostenere che ci sia stata una violazione della privacy. Forse coloro che gridano allarme al Garante della privacy non hanno letto attentamente le ordinanze del Tribunale di Roma che ovviamente hanno approfondito questa tematica. Siccome i dati sono stati raccolti per far valere un diritto in sede giudiziaria non era necessario il consenso della rispettiva persona. Questo è un’eccezione prevista dall’articolo 24, comma 1, lettera f), dell’articolo 43, comma 1, lettera c) nonchè dell’articolo 13, comma 5, lettera b) del Codice della privacy. È anche ragionevole, perchè altrimenti l’impresa danneggiata non avrebbe la possibilità di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e verrebbe violato l’articolo 24 della nostra Costituzione. Sarebbe anche un’assurdità, perchè anche il ladro che in un negozio è stato rintracciato dal detective con l’aiuto della telecamera di sorveglianza non può aspettarsi di cavarsela sostenendo che sia stata violata la sua privacy. Sia aggiunto che – con tutto il rispetto verso il lavoro che fanno le organizzazione dei consumatori – le persone che illecitamente hanno diffuso opere d’ingegno tutelate nell’internet, giuridicamente non possiedono la qualità di “consumatori”, ma hanno una responsabilità extracontrattuale nei confronti dell’impresa che hanno danneggiata con il loro comportamento, pertanto tutta la normativa a tutela del consumatore non è applicabile».
Internet Magazine raccoglie però anche l’opinione di Guido Scorza, Professore presso il Master di diritto delle nuove tecnologie dell’Università di Bologna e presso la Scuola Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri: «la Logistep AG ha trattato per settimane o forse mesi i dati personali di centinaia di migliaia di utenti di mezza europa senza chiedere alcun consenso nè prestare alcuna informativa. Non vi è dubbio che le operazioni di monitoraggio poste in essere dalla Logistep AG si siano, almeno in parte, svolte sul territorio italiano con conseguente applicabilità della disciplina dettata dal Codice Privacy che non contempla la possibilità, per un soggetto privato, di porre in essere – per di più attraverso strumenti automatizzati – operazioni di trattamento di dati personali tanto ampie ed indiscriminate».
Quantomeno clamorosa una ulteriore sfumatura relativa alla lettera inviata agli utenti: Secondo Scorza «sfortunatamente per gli utenti il reato loro contestato – messa a disposizione di opere protette dal diritto d’autore attraverso internet – è procedibile d’ufficio con la conseguenza che, a prescindere da ogni iniziativa della Peppermint essi corrono, comunque, il rischio di vedersi trascinare davanti ad un giudice penale». Insomma: pagare non servirebbe comunque a dormire sonni tranquilli in quanto non sarebbe la Peppermint Jam a decidere del proseguio dell’azione legale.
Internet Magazine farà seguito alla pubblicazione integrale dell’intervista con ulteriori approfondimenti per seguire l’esito della vicenda e dell’azione legale intentata contro migliaia di utenti italiani.