Dal Guardian Media Group è giunto un pesante attacco frontale a Google News e, tramite il servizio Google, a tutti gli aggregatori online. L’accusa è in apparenza di vecchio stampo, ma apporta elementi nuovi al dibattito e si pone in modo differente e più approfondito di fronte al problema. Gli aggregatori, infatti, sono accusati di parassitismo e per questo motivo il Guardian Media chiede che siano direttamente le istituzioni ad intervenire. In ballo c’è la spartizione delle risorse tra coloro i quali producono i contenuti e coloro i quali li distribuiscono.
Il Guardian Media Group è intervenuto sull’argomento in una sorta di commento a quello che è stato partorito all’interno del “Digital Britain: The Interim Report”. Trattasi nella fattispecie di un rapporto scaturito da un team di esperti i quali sono stati riuniti dal Dipartimento per la Cultura, i Media e lo Sport del Governo del Regno Unito. Tra gli esperti convocati, peraltro, è presente anche il nome di Francesco Caio, oggi alle prese con il problema della banda larga in Italia. Il report comprende un capitolo nel quale vengono espresse tutte le considerazioni utili ad una corretta legiferazione relativa al comparto dei contenuti online. A tal proposito interviene il Guardian, offrendo il proprio appoggio ai contenuti espressi, ma segnalando la necessità di affrontare anche un’altro tipo di problematica: «accogliamo con piacere la focalizzazione nel report del rispetto di proprietà intellettuale e copyright, ma crediamo che ci sia una lampante omissione […]: gli effetti negativi degli aggregatori e dei motori di ricerca sulla possibilità e sull’incentivo di investire in contenuti di qualità».
Il Guardian non compone però il classico piagnisteo degli editori che vedono “depredati” i propri contenuti. Il discorso, semmai, si basa su di una valutazione meramente economica: secondo il Guardian Media Group, insomma, il rapporto tra le parti non è più paritario tanto da poter prevedere uno scambio abstract/link. Il valore del traffico in arrivo, infatti, sarebbe ormai sempre minore (la concorrenzialità ha diminuito fortemente il peso specifico di ogni singolo utente nel computo complessivo della remunerazione degli spazi promozionali) e stando così la situazione i produttori di contenuti non dovrebbero più accettare un paradigma che nel tempo è andato sgonfiandosi di significato. Le conseguenze, infatti, sono in una disequilibrata distribuzione delle risorse, con gli aggregatori a raccogliere importanti cifre pur senza contribuire in alcun modo alle spese necessarie per la produzione di contenuti di valore. A perderne, insomma, sarebbe primariamente l’informazione nella sua complessità.
La segnalazione del Guardian Media Group non è meramente oppositiva (come lo era stata invece, ad esempio, l’iniziativa legale avanzata in belgio dalla Copiepress). Si suggerisce, piuttosto, un’indagine approfondita sulla produzione dei contenuti, così che possa essere cercata una qualche forma nuova di business utile a premiare maggiormente la produzione al cospetto del contenuto. L’advertising dovrebbe insomma premiare innanzitutto chi crea valore, e solo in seguito chi ne fruisce per la redistribuzione. In altri termini, chi redistribuisce dovrebbe partecipare alle spese di produzione condividendo in qualche modo gli introiti con quanti mettono a disposizione il proprio materiale.
Tra le righe potrebbe esserci una sorta di pressione attuata al fine di costringere Google News a condividere i propri proventi (da poche settimane il servizio è dotato di spazi promozionali al fianco delle notizie aggregate), ma il discorso complessivo appare più articolato e volto non tanto al caso specifico, quanto più alla ricerca di una soluzione di lunga durata e comprensiva di tutti i maggiori servizi di aggregazione presenti in Rete (Digg, Delicious ed altri sarebbero pertanto chiamati in causa).
Non a caso il Guardian non sembra voler ipotizzare una fuga da Google News per protesta nei confronti del servizio: si chiede soltanto un differente rapporto tra le parti, il quale dovrebbe essere in qualche modo imposto dall’alto poiché ogni protesta singola estromette semplicemente l’autore dalle opportunità esistenti. Se dunque il Guardian rinunciasse a Google News, lascerebbe le pagine del servizio a libera disposizione della BBC o di altri gruppi dominanti. L’obiettivo, invece, è differente: rimanere su Google News (e similari), ma collaborare con lo stesso per ottenere un diverso riscontro economico. Se ne potrebbe altrimenti pagare le spese direttamente a livello di qualità dei contenuti.