Il creatore di Bitcoin è un nippo-americano di 64 anni che vive in California, si occupa di modelli di trenini a vapore che utilizzano il computer e ha trascorso gli ultimi anni combattendo un cancro alla prostata e in seguito un ictus. Ma la cosa ancora più incredibile, è che secondo Newsweek il suo nome è davvero Satoshi Nakamoto.
Lo scoop sollevato della giornalista Leah McGrath Goodman è davvero incredibile. Il padre del network P2P più celebrato del mondo, che ha reinventato il concetto di valuta, non avrebbe mai usato uno pseudonimo. Secondo la giornalista, Satoshi ha cambiato il proprio nome nel 1973 in Dorian Prentice Satoshi Nakamoto, ma è vivo e vegeto. È bastata una semplice ricerca e dopo due anni a girare in lungo e in largo il paese in cerca di tutti quelli che portavano questo nome, quando si è trovata di fronte questo americano di origini giapponesi, laureato in fisica presso la California State Polytechnic University, che si è trincerato dietro un ostinato silenzio dopo aver smesso di rispondere alle mail ogni volta che si parlava di Bitcoin, è nato il sospetto. Sui Bitcoin, infatti, l’unica risposta è sempre stata «non sono più coinvolto e non posso parlarne, è stato consegnato ad altre persone».
1/2 Hello to those of you who have written to me today about @Newsweek's coverage of #Bitcoin and #SatoshiNakamoto…
— Leah McGrath Goodman🌻🗿 (@truth_eater) March 6, 2014
Non sono molte le prove o gli indizi addotti dal giornale per avvalorare la tesi che questo Nakamoto sia effettivamente il padre del Bitcoin. Alcune date coincidono: i concetti della crittomoneta sono nati nella silicon valley trent’anni fa e non nel 2008 come si crede, ma è nel 2008 che qualcuno ha dato l’idea giusta. Secondo la giornalista, sarebbe un uomo che ha sempre mostrato un pensiero ultra libertario, diffidente rispetto a tutti e tutto, esperto di sicurezza, crittografia, e ha lavorato in progetti classificati dell’esercito USA. Tutto qui.
Le reazioni della community
Quasi nessuno è disposto a credere a questo racconto. Lo sviluppatore di Bitcoin Gavin Andresen, ampiamente citato nel pezzo, si dice «pentito di aver collaborato con Newsweek», anche perché ritiene di aver messo involontariamente a rischio la privacy di questa persona. Mentre dai forum emerge un certo fastidio per questo genere di morbosità, molto lontane dalla natura della crittomoneta e del P2P fatto di scambi pseudonimi e crittografati e sul mining di diverse persone sparse in tutto il mondo.
I'm disappointed Newsweek decided to dox the Nakamoto family, and regret talking to Leah.
— Gavin Andresen (@gavinandresen) March 6, 2014
In realtà sarebbe anche possibile provare la sua identità: quest’uomo dovrebbe dimostrare di poter spostare a suo nome un miliardo di dollari di Bitcoin, l’equivalente del primo milione di monete prodotte nelle prime ore di vita e mai scambiate. Se lo facesse, si dimostrerebbe che l’uomo è il padre o comunque uno dei primi miner della crittovaluta.
Aggiornamento (7 marzo): Satoshi smentisce Newsweek
Sembra proprio che il signor Satoshi Nakamoto abbia in comune con il fondatore, unico o collettivo non si sa, del Bitcoin soltanto il nome. In una lunga intervista all’agenzia AP, il singolare e generalmente taciturno nippo americano di 64 anni, ex collaboratore dell’esercito Usa, ha smentito categoricamente di aver prodotto le riflessioni sui Bitcoin e di non possedere quel mezzo miliardo di dollari che deriverebbe, stando a Newsweek, dalla sua primigenia attività di miner. Quando ha visto il documento che il giornale americano ha utilizzato per mostrare la sua relazione con la crittovaluta, Satoshi ha sostenuto che quella non è la sua mail e che non sa neppure dare una definizione di peer-to-peer. Nell’intervista aggiunge anche di ritenere che qualcuno abbia trovato il suo nome da qualche parte e l’abbia utilizzato come pseudonimo dell’inventore di Bitcoin.
Insomma, stando al protagonista di questo strano scoop, Newsweek si è inventato tutto. Tuttavia, così come era impossibile dimostrare che Satoshi Nakamoto fosse realmente “quel” Satoshi Nakamoto, permane il mistero. E forse il gioco, anche giornalistico, sta tutto qui: nel cercare per forza un volto e un padre a qualcosa che ha una natura algoritmica e collettivista.