Imitati in tutto il mondo, frequentati come vere e proprie chiese contemporanee della liturgia tecnologica: gli Apple store non sono negozi come tutti gli altri. Ma per quale motivo? Carmine Gallo, esperto di comunicazione già autore di un saggio sul successo del marchio Apple, The Apple experience, lo racconta in alcune slide pubblicate in esclusiva da BusinnessInsider.
In 72 piccoli quadri, l’autore sviscera tutte le caratteristiche che hanno reso questi negozi irresistibili per un’intera generazione (e probabilmente anche la prossima) di fanatici dell’elettronica di consumo. Il punto principale a cui tiene Gallo è quello del clima che si trova all’interno dello store: a prima vista informale, in realtà frutto di una sapiente cura e selezione:
L’esperienza Apple non si basa sul prodotto, o almeno non solo su quello. L’anima della Apple è il personale, come sono motivati, allenati, preparati allo stress e a comunicare una esperienza magica.
Per ottenere questo scopo, l’azienda del compianto Steve Jobs ha elaborato una strategia in tre passi che potremmo dire “registica”: ispirare il dipendente, servire il cliente, preparare il set. Come a teatro: lavorare con l’attore, invitare il pubblico, preparare la scena.
Nell’analisi dell’esperto di comunicazione emerge tutta la filosofia “new age americana” di Jobs, concetti che ha insistito fino alla nausea per instillare nella sua creatura: la felicità del dipendente, la convinzione di essere parte di un progetto destinato a cambiare il mondo, sono tutte tecniche ma soprattutto idee sulle quali poggia il servizio. Per ottenere questo scopo, i candidati agli Apple store devono rispondere ai dei requisiti psicologici ben definiti: grande capacità di sopportazione dello stress, capacità di servire il cliente ad alto livello e abilità retorica sopra la media. Basti pensare che tra le domande che i manager devono porsi nello scegliere un candidato ad un Apple store è se il candidato «potrebbe fare due chiacchiere con Steve Jobs» (ora dovrà essere aggiornato).
Anche il resto dell’approccio è basato su questi concetti, ad esempio sulla creazione di un rapporto simpatetico con il cliente, persino nella prossemica: mai più di dieci passi o dieci secondi dall’ingresso in uno store e il primo sorriso che si riceve. Molto divertenti anche gli esempi di colloquio modello per clienti: da chi non ha idea di cosa acquistare a chi vuole conoscere ogni particolare del device, sempre parlando dei benefici invece che delle funzioni, esaltando il lato emozionale e non razionale (anche se lo sembra). Ma c’è un elemento ulteriore: una volta preparati, i dipendenti devono lavorare in un negozio che riproduca la stessa maniacale attenzione per il dettaglio che si nota nei prodotti. E questo spiega la forte battaglia contro i negozi fake sparsi nel mondo e il deposito come brevetto anche degli store e non solo dei prodotti.
Architetture trasparenti, materiali innovativi, la distribuzione degli spazi open secondo processi “religiosi” (la discesa nello store di New York sulla Quinta strada), non sono mai casuali, ma veri progetti di cultura postmoderna. Che ci si creda o meno, sono la causa della remuneratività di questi store, la più alta al mondo.