Dietro l’editoriale di Filippo Facci sul Giornale c’è molto, moltissimo. C’è un preconcetto strisciante, c’è una superficialità evidente, c’è un astio mai sopito. Filippo Facci lo dice subito: «chissenefrega dello sciopero». Fin dal titolo, atteggiamento e idee sono chiare e trasparenti. Peccato, perchè nel teorema di Facci qualcosa da salvare ci sarebbe. Però è tutto viziato dalla posizione iniziale, da un distacco immediato, dalla categorizzazione buoni/cattivi che forma una immediata scala di valori totalmente arbitraria. Tutto quel che di buono c’è, insomma, va perduto tra le righe di un attacco che, partendo dal Decreto Alfano, arriva ai più consunti luoghi comuni relativi al World Wide Web.
«A un certo vittimismo di categoria stile mi-straccio-le-vesti, roba insomma da giornalisti, ora si aggiunge un’antistorica e anche un po’ patetica – mi scuseranno – pretesa di separatezza da parte dei cosiddetti blogger, i proprietari cioè di blog e di siti internet che per il prossimo 14 luglio hanno indetto uno sciopero: in pratica significa che non aggiorneranno i loro blog con ciò ritenendo – mi scuseranno ancora – che gliene freghi qualcosa a qualcuno». Condivido. Sì, condivido. Lo sciopero non interesserà a nessuno. Perchè per formare una opinione, in Italia, occorre ancor oggi passare per forza di cose attraverso i media mainstream. Lo dice l’Osservatorio sulla Banda Larga: 12 milioni di nuclei familiari italiani sono ancora oggi senza PC, chi ce l’ha non sempre ha una connessione, e chi ha anche quest’ultima passa la maggior parte del proprio tempo tra video e suonerie. Ha ragione Facci: dello sciopero importa davvero poco, ancor più se maturato all’interno di un sottoinsieme di una categoria per sua definizione frammentata, indefinita e probabilmente nemmeno esistente.
Quel che Facci sbaglia, però, è il giudizio a tutti i costi. Perchè di antistorico c’è la presa di posizione. Perché patetico è il contestare una categoria in quanto inesistente, poiché così facendo paradossalmente la si definisce ed in qualche modo la si coalizza. Se però l’introduzione aveva motivo d’essere, tutto il resto è invece critica pretestuosa.
Chiede Facci: «Che cosa vogliono costoro? È semplicissimo: vogliono che la rete resti porto franco e che permanga cioè quella sorta di irresponsabile e anarchica allegria che era propria di una fase pionieristica di internet e che era precedente a quando “la rete” non era ancora divenuta ciò che è ora: un media rivoluzionario, ma pur sempre un media, dunque la propaggine di altri media anche tradizionali che sono regolati dalla legge come tutto lo è». Parificare un blogger ad un giornale è sbagliato ad ogni livello:
- Il blog è un capannello di persone che si forma in una piazza aperta. C’è una persona in centro che parla, gli altri commentano, poi qualcuno si stufa e cambia gruppo ed argomento. Su un blog non si pontifica: si esprime una idea. Pensare che un blog ed un giornale possano essere parificati significa anzitutto ignorare la differenza radicale tra la carta e la rete, ma significa anche avere poco chiaro il significato stesso dei blog. E tutto questo non vuol dire che il blog debba essere intriso di anarchia, si badi bene. Anzi.
- Il blog è curato da una persona sola. Che non guadagna nulla dal proprio agire, ma che usa quel piccolo spazio per ritagliarsi una dignità ed una consapevolezza. Non c’è una redazione. Se dunque vien chiesta una rettifica, quest’ultima potrà essere fatta nei tempi e nei modi consoni a quelle che sono le possibilità di un’utenza privata, non costante, legata ad una vita offline che ha tempi e luoghi ben più vincolanti di quella che è la realtà online. E tutto questo non vuol dire che il blog debba essere intriso di anarchia, si badi bene. Anzi.
Ma in fondo all’articolo di Filippo Facci basterebbe contrapporre una semplice domanda: «Cosa c’entrano i blog con le intercettazioni?». Non è una domanda nostra: l’ha formulata il 10 Giugno scorso un blogger, Marco Pancini, European Policy Counsel di Google. Il quale a fine post sembrava già in qualche modo anticipare la possibilità che le incomprensioni avrebbero potuto ancora prendere pericolosamente il largo: «La strada che porta all’affermazione della specificità della Rete e dei diritti dei navigatori è ancora molto lunga». La profezia si è avverata oggi stesso e la deriva ha preso forma sul Giornale.
«Nel credersi una razza a parte, invece, i blogger si credono alternativi anziché complementari a tutto il resto, si credono vento anziché bandiera: in lingua italiana significa che vogliono continuare a poter fare l’accidenti che vogliono e quindi a scrivere e a ospitare qualsiasi «opinione» anche diffamatoria, qualsiasi sconcezza o tesi incontrollata e appunto declinata di ogni responsabilità». In questo stralcio c’è una verità geniale: il blog come vento e non come bandiera. Vero, verissimo. Perchè la blogosfera non ha corpo, né riferimenti fissi: ha soltanto direzioni. Ed ha anche una sua forza. Ma non è invece vero il fatto che con l’annunciata “giornata del silenzio” i blogger abbiano preteso impunità: lo “sciopero”, piuttosto, chiede che il legislatore ponga maggiore attenzione a quel che va formulando, poiché la Rete è una realtà differente che non può (tecnicamente non può) essere regolata con le medesime norme dei media tradizionali. Sarebbe come costringere i giornali a permettere i commenti sotto gli articoli sul cartaceo: non si può, è evidente che non si possa fare, è una contraddizione nei termini e probabilmente gli editori sciopererebbero per chiedere che l’assurdo venga cancellato.
«Simbolo ne è poi l’anonimato dietro il quale milioni di cuor di leoni abitualmente lanciano sassate e nascondono la tastiera. In teoria non dovrebbe essere così già ora: le leggi sulla diffamazione infatti già riguarderebbero anche loro, dovrebbero rispondere cioè di insulti e falsità come chiunque altro». A questo punto l’analisi di Facci esce purtroppo totalmente dal seminato. Perchè contestare i blog anonimi significa prendere un fuscello d’erba per farne un fascio. In modo strumentale, peraltro. I blogger che scioperano, e che non hanno ovviamente pretesa di rappresentazione universale di una categoria che categoria non è, hanno infatti messo firma, faccia e link al proprio assenso. Non c’è anonimato, non c’è alcuna tastiera nascosta. «Va da sé che lo sciopero abbia tonalità insopportabilmente apocalittiche (e il bavaglio, e ci vogliono zittire, il solito martirio) e va da sé che la maggioranza degli aderenti non pare aver capito neppure di che cosa si sta parlando»: fior di post, wiki e discussioni dimostrano il contrario. La cosa non è forse scaturita sui giornali, ma sul Web se ne parla da settimane.
Il teorema dei “cuor di leone” si sviluppa su una seconda pagina, fino a definire “vigliacchi” i blogger anonimi. Non quelli dello sciopero, insomma, ma altri che a quanto pare ancora consumano i propri tormenti molestando il nome di Facci su Wikipedia. I quali però non sono “blogger”, ma semplici “vigliacchi” che disturbano l’agire comune con rappresaglie vandaliche.
Nel minestrone dell’articolo di Filippo Facci c’è un po’ di tutto. Si smonta l’idea della blogosfera, identificandola; si criticano i blogger anonimi, i quali non sono però certo quelli firmatari dello sciopero; si spara contro la Rete, mirando al mucchio e colpendo nessuno. Ma nell’articolo manca anche molta altra roba. Manca la spiegazione vera dello sciopero che si va a criticare. Manca il substrato dei lavori che hanno portato a formulare una proposta (sì, la rete è anche propositiva, quando si impegna: non è solo un insieme di «reazionari e basta»). Mancano le critiche incrociate sulle modalità dello sciopero, sull’insostenibilità dell’idea del “silenzio” e sulla necessità invece di un agire comune.
Questo articolo ha una firma. Questo articolo non pensa di aver portato avanti tesi o espressioni offensive. Questo articolo ha supportato una proposta, ha interagito con una critica, ha linkato risorse e fonti. Questo articolo giunge da un blogger, dalla Rete. Questo articolo verrà linkato il 14 Luglio, quando il blog di Webnews si unirà alla giornata del silenzio.