Il team Instagram ha capito una cosa: che tutti abbiamo una pulsione poetica dentro di noi, ma che non tutti hanno le capacità, la pazienza e lo stimolo necessari per esprimere questa pulsione, farla concreta e renderla condivisibile. Il successo di Instagram non è nella qualità del progetto, di per sé semplice e strutturato in modo sostanzialmente elementare: la grandezza di Instagram sta nell’idea per cui dietro a qualunque utente possa nascondersi un fotografo. E che nella semplicità questa qualità immanente possa farsi viva.
La grandezza di Instagram, quella che Facebook ha voluto far propria acquisendo in toto il progetto, va però guardata a tutto tondo per essere meglio capita. Instagram è infatti lo strumento che ha regalato a molti utenti un’illusione ed una opportunità: quella di sentirsi, per un attimo almeno, dei fotografi. Un qualsiasi scatto, infatti, può essere salvato e reso in qualche modo artistico: basta accentuare un colore, abbozzare una sfumatura, aggiungere un filtro. Basta deviare in parte la realtà ritratta per ottenere una realtà immaginata e, in quanto tale, para-artistica.
Ci troviamo di fronte agli anni ’70 della fotografia, ad una sommossa di massa nella quale una intera popolazione intende vantare un gusto fotografico improvvisato. È il ritorno del 6 politico, la rivendicazione del diritto di sentirsi meritevoli di avere questa opportunità: quella di effettuare uno scatto e di condividerlo con dignità. Una cosa, peraltro, ben lungi dall’essere un semplice vezzo: Instagram tocca nel profondo e racconta giorno dopo giorno, scatto dopo scatto, una community da milioni di persone.
Instagram ha regalato il 6 politico a milioni e milioni di fotografie scattate in tutto il mondo. Nell’epoca dei megapixel e delle macchine fotografiche digitali è come se tornasse di moda la Polaroid: punta, scatta, sviluppa e condividi istantaneamente, con la sicurezza del fatto che la controparte capirà la povertà del tuo strumento ed apprezzerà se non altro il “carpe diem” che sta dietro lo scatto. Inquadratura, luce, fuoco: non importa, quel che importa è descrivere un momento e dargli quel tocco di enfasi sufficiente per renderlo speciale.
Facebook, che sulla forza delle masse sta costruendo il proprio approdo in borsa, ha voluto far proprio uno strumento del genere poiché perfetto per le proprie finalità: una applicazione gratuita da portare sugli smartphone e consentire così fiumi di condivisioni. Per tutti: avere un iPhone non è più un requisito, avere un’ottica superba non è più una necessità imprescindibile. L’importante è scattare e poi affidare alla post-produzione la propria “opera”.
Il gusto e la qualità faranno sempre e comunque la differenza: chiunque sa notare se uno scatto sia o meno di qualità, trasmetta o meno una “poesia”. Al tempo stesso, però, gli scatti condivisi narrano anche un qualcosa di diverso: non parlano solo del soggetto ritratto, ma raccontano anche e soprattutto qualcosa dell’autore. Questa è la condivisione: frazioni di sé lanciate su una piazza pubblica verso una community pronta a recepire, scambiare, dialogare. Ed è anche così che si delinea oggigiorno la propria identità sociale online.
Instagram è il 6 politico che ha regalato alle masse questa opportunità: raccontare qualcosa di sé, aggiungendo quel pizzico di maquillage che, oltre a dar colore allo scatto, aggiunge colore anche al nostro volto sociale, alla propria presenza online, al rapporto con i propri contatti. Instagram rende tutti più gradevoli (ed accettabili), elargendo democraticamente una sufficienza che trasforma qualsiasi smartphone in una macchina fotografica e qualsiasi utente in un fotografo. Facendo questo, Instagram regala a tutti una miglior immagine di sé ed una vetrina per mostrarsi, una opportunità per emergere e catturare dei “mi piace” che oggi misurano in qualche modo la capacità di stare nel gruppo.
E questa virtù ha un valore: 1 miliardo di dollari. Con assegno firmato da Mark Zuckerberg in persona.
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