Internet crea o sposta risorse?

Internet è una risorsa o soltanto uno strumento che depreda dal mercato tradizionale per spostare i capitali sulla rete? Internet può mantenere le promesse della coda lunga? Univideo pensa di no: il ruolo dei mediatori non può essere sostituito dalla rete
Internet crea o sposta risorse?
Internet è una risorsa o soltanto uno strumento che depreda dal mercato tradizionale per spostare i capitali sulla rete? Internet può mantenere le promesse della coda lunga? Univideo pensa di no: il ruolo dei mediatori non può essere sostituito dalla rete

La conferenza “Internet crea o sposta risorse per il cinema?”, allestita all’interno del Cineshow di Torino e che ha visto protagonista Davide Rossi, si è infiammata quando il presidente di Univideo ha dichiarato di non credere in alcune delle dinamiche di internet facendo anche alcune affermazioni forti. La discussione infatti ruotava tutta attorno al mondo dell’audiovisivo nel momento in cui la rete sembra proporre nuove opportunità e nuove possibilità economiche. L’opinione di Rossi è in questo senso precisa: quelle risorse che vediamo nascere in rete non sono possibilità in più, ma opportunità sottratte agli altri business.

In tale contesto Rossi si è pronunciato contro l’efficacia della teoria della “coda lunga” come metodo per spiegare il funzionamento dell’economia in rete, contro le possibilità di moltiplicazione delle fonti di emissione di contenuti in rete e contro l’idea, sostenuta anche da Viviane Reding tra gli altri, di un mercato della cultura in rete che sia privo di intermediari. Si è pronunciato quindi contro ogni possibilità per un mercato in rete con una semplice frase che ha dato il via ad un fitto dibattito: «il mondo di internet è così inquinato dalla pirateria che non c’è spazio per operazioni legali e allora il triste e banale meccanismo della pubblicità che finanzia è la prova di come qualche operatore stia arrancando. Non si tratta quindi di nuove risorse ma di uno spostamento da una tasca ad un’altra».

Invitato a parlare intorno all’argomento delle nuove possibilità che il cinema incontra in rete, il Presidente del consorzio che riunisce tutti i rivenditori e noleggiatori di DVD ha cercato di dimostrare come internet in realtà non sia un fornitore di nuove risorse, ma semplicemente un mezzo sul quale si spostano quelle già esistenti, sottraendo soldi a business reali per altri che ancora non sono maturi e che (forse) non lo saranno mai.

Il mercato della vendita e del noleggio tradizionale di DVD è in forte calo, è noto ed è una cosa che si attendeva da tempo guardando a quello che è successo con la musica (anche se Davide Rossi sostiene che si tratti di business dal funzionamento molto diverso perché dotati di modalità di fruizione diversa) e chi come Univideo rappresenta l’interesse di un settore così in crisi (a meno di clamorose reinvenzioni di se stesso), non può che guardare con diffidenza e scetticismo il responsabile primo di tale momento di difficoltà.

Responsabile che in una parola è internet, sia nella forma più ovvia della pirateria (devastante), sia in quella delle nuove forme di business che rendono molto poco e sono ostacolate da problemi di diritto d’autore.

Proprio sul punto della difficoltà di gestione delle opere di ingegno in rete, lo scontro tra il presidente di Univideo e la platea si è fatto più forte che mai. In particolare quando Rossi ha detto di non sostenere l’idea del commissario dell’Unione Europea per le comunicazioni che «vorrebbe un filo ai cui estremi da una parte c’è una persona che suona e dall’altra uno che ascolta», quello cioè che per molti è una speranza e un sogno: la scomparsa di intermediari come SIAE, FIMI, Warner, eccetera (nel caso della musica). Tali istituzioni, sostiene sempre Rossi, sarebbero essenziali per la promozione e corretta veicolazione della cultura. Sono gli intermediari, spiega sempre il Presidente di Univideo, che assicurano le possibilità di diffusione ad un’opera sia grande che piccola e, in sostanza, sono gli intermediari che ci portano a conoscenza della loro esistenza.

Infine, poi, ha dipinto anche un apocalittico scenario per il quale la disintermediazione potrebbe portare alla concentrazione di tutto il sapere in un unico sito che distribuisca musica, cinema e quant’altro si digitalizzi e che quindi le controlli arbitrariamente. Una provocazione forte e uno scenario abbastanza estremo che, in quanto tale, difficilmente si può realizzare.

Il punto sostenuto da una parte della platea era che internet non funziona così e che scomparendo gli intermediari le fonti non si accentrano ma si moltiplicano. Ad oggi fruiamo più musica e da sempre più fonti, se allora scomparissero le etichette i gruppi come i Radiohead potrebbero far girare le loro canzoni su una molteplicità di siti, semplicemente perché è nel loro interesse. L’idea di un accentramento non è proprio in linea con l’idea di internet, un luogo nel quale è possibile differenziare le fonti all’inifinito ricevendone un continuo beneficio in termini di ascolto.

Secondo Davide Rossi, invece, tutti ci rivolgiamo a Google per cercare le cose, dunque esiste un imbuto della comunicazione. Questa visione però non tiene conto del fatto che Google indicizza l’informazione invece di gestirla, è un puntatore che funziona secondo indici di popolarità e non un editore che decide cosa mettere in prima pagina, dunque non ha a che vedere con la gestione dei contenuti. Insomma chi vuole comprare musica in Italia va su iTunes e non su Google, e negli Stati Uniti (dove esistono più alternative) nemmeno va su Google ma direttamente dove sa di trovarla (Amazon Mp3, MySpace Music). In più, sempre a favore della libera distribuzione, c’è la teoria della coda lunga per la quale i contenuti di nicchia assumono più valore in rete e non meno.

A questo punto si è aperta un’altra fase del dibattito poiché Rossi si è detto scettico sul funzionamento della coda lunga chiedendo di fare dei nomi di negozi per i quali tale sistema funzionerebbe.

Sono stati fatti allora gli esempi di iTunes e Amazon, ai quali il presidente di Univideo ha replicato chiedendo come facciano: «hanno magazzini infiniti?». Un po’ è così (le foto dei grandi magazzini Amazon sono in rete), un po’ veicolano file e quindi non hanno ingombro fisico e soprattutto un po’ il concetto di magazzino è superato da quando la Toyota ha inventato la just in time delivery.

Rossi sostanzialmente ha difeso il prodotto di qualità contro la distribuzione fai da te, contro lo user generated content («pari alla candid camera e ai reality»), contro l’impossibilità di controllare la promozione del prodotto in rete e quindi contro i blog come veicolo d’informazione e di novità («una moda che presto si asciugherà»), contro Facebook («ce l’ho ma non lo uso»), contro gli store online e la loro “presunta” coda lunga, contro il Guerrilla Marketing e contro YouTube (al quale «ha fatto bene Mediaset a fare causa» e sul quale «chiunque scrive commenti senza assumersi la responsabilità delle accuse fatte»). Insomma contro la parte innovativa della rete e contro la redistribuzione del potere informativo anche agli utenti.

Da una parte si tratta di un atteggiamento comprensibile (del resto si tratta del presidente di un consorzio che rappresenta i videonoleggiatori) dall’altra è un modo di fare un po’ troppo restio all’innovazione e alle possibilità che si possono aprire per la categoria in questione. E quindi controproducente.

Deprime il fatto di avere continue conferme dell’inadeguatezza di alcune figure cruciali a cogliere i cambiamenti e le opportunità della modernità: viene da chiedersi come potrebbe migliorare il mercato e l’evoluzione della distribuzione digitale e immateriale se ad agire ci fossero personaggi più fiduciosi e convinti delle possibilità effettive di internet. Come ricorda anche De Biase «Ho l’impressione che la consapevolezza di questo rovesciamento delle gerarchie nella circolazione delle idee sia una sorta di nuovo digital divide culturale: c’è un’enormità di persone, ai vertici delle vecchie gerarchie, che non hanno ancora compreso la nuova dinamica e che la ritengono una questione di poco conto».

Ma a parziale consolazione si può pensare che alla fine di tutto non solo l’utenza è avanti rispetto alle istituzioni, perché le nuove opportunità quando si presentano le usa e molto, ma anche l’industria e il mercato sono più avanti, perché nonostante le resistenze di etichette e consorzi poi arriva gente che con la musica o il cinema ha poco a che vedere (ma che molto se ne intende di affari) come Steve Jobs e dà a compagnie come la Universal o la Warner quelle nuove possibilità che ne stimolano la modernizzazione.

Che lo vogliano o meno i consorzi.

Purtroppo all’interno della discussione non si sono potute bene approfondire le motivazioni concrete per le quali il Presidente non creda nella coda lunga. Il suo è parso però un approccio tale per cui la necessità di stipulare molti accordi di distribuzione con i singoli proprietari dei diritti sarebbe un processo talmente difficile, lungo e oneroso da rendere impossibile la coda lunga. Obiezioni che tuttavia sembrano ottime per i business analogici e non per quelli immateriali, specialmente in considerazione del fatto che business che prosperano sulla lunga coda effettivamente ne esistono. E non sono pochi.

La discussione intanto era giustamente tornata sui binari più opportuni del cinema e delle potenzialità di chi lo veicola online, «incapace di fare vero reddito» secondo Rossi: un’idea netta la cui spiegazione è stata in centrata sull’esempio fatto da Rossi delle televisioni commerciali negli anni ’80, portatrici di grandissima innovazione ma con il tempo appiattite sul gusto del pubblico che le foraggia guardando la pubblicità. La pubblicità in sostanza non sarebbe un elemento di business valevole in grado di fomentare la circolazione di cultura perchè tarata dalla ricerca della massimizzazione dei profitti e quindi dell’appiattimento del gusto sui pochi prodotti di grande successo (e basso costo) che spesso sono i più scadenti.

Ancora sembra che non si tenga però conto delle dovute differenze tra mondo analogico e mondo digitale, delle differenze cioè dei business che hanno sede in rete. La televisione ha un palinsesto limitato e dunque si trova a dover fare delle scelte selettive, prendendo (in molti casi) programmi o format di sicuro successo a scapito di altri per i quali non rimane spazio. Ma la rete al contrario ha spazio infinito e costi molto minori e soprattutto accede ad un bacino di utenza che è più propenso a contenuti di nicchia per la teoria della coda lunga di cui sopra.

Inoltre come ricorda con una certa ironia anche Quintarelli sul suo blog: «anche se il mercato dei DVD è in calo, il mercato DVD è più forte della TV broadcast. Forse che anche il calo della pubblicità nella TV broadcast è causato dalla pirateria? Certamente ha a che vedere con Internet. Non mi era mai venuto in mente il parallelo, che in effetti c’è. Perché pensare solo ai poveri venditori di DVD? Pensiamo anche ai poveri broadcaster. Basta vietare la pubblicità su Internet».

L’idea di Univideo insomma sembra proprio essere che non può esistere un mercato online perché troppo difficile, ognuno vuole la sua parte (editori, artisti, esercenti, produttori) tanto che poi i proventi per chi commercia sono pochissimi e la pubblicità non è un’idea sostenibile sia economicamente che culturalmente. Una linea difensiva difficile da capire poiché in teoria applicabile anche al commercio dal vero e soprattutto superabile con del lavoro e degli accordi che convengono a tutti, con un progetto insomma, cosa che negli Stati Uniti tra le altre cose già esiste e in forme diverse, segno che non solo è possibile ma anche che i vari comparti del mercato sono pronti. È allora un problema dell’Italia?

Interrogato proprio su tale punto, cioè se le difficoltà che aveva elencato fossero proprie del nostro mercato o universali, il presidente di Univideo ha risposto che sono universali e portatigli gli esempi (nuovamente) di iTunes, CinemaNow o addirittura di MySpace Music (che dà tutto gratis) Rossi si è detto scettico sul loro reale profitto.

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