Come da tradizione State of the Net ha dedicato ai numeri di Internet, al suo stato attuale, il primo panel del suo programma. Questa volta non le statistiche di Vincenzo Cosenza, ma la ricerca di Ixè sulla percezione del web da parte degli italiani. Il campione intervistato ha mostrato almeno due segnali rilevanti: la maggiore ansia per la protezione della privacy, e il ruolo forte degli over 50 nella esposizione di sé tramite i social network.
Dopo il saluto introduttivo di Beniamino Pagliaro, uno dei padroni di casa della manifestazione, e l’intervento introduttivo di Luca De Biase – che ha riflettuto sul concetto di smart arrivando alla conclusione che in fondo l’unica tecnologia veramente smart mai realizzata è Internet «il resto è interpretazione» – Elena Carlini ha presentato i risultati dell ricerca di Ixè . Poche efficaci slide per raccontare il sentimento italiano verso la Rete, frastagliato ed evolutosi in questi ultimi dieci anni. Primo elemento, le coorti di età: influenzano molto sia il consumo che la reputazione concessa all’informazione online rispetto alla cartacea. Due persone su tre fra gli over 64 credono nell’informazione cartacea, mentre per quanto riguarda il web la percentuale crolla al 14%. Stesso fenomeno si nota anche con la televisione, apprezzata dal 17% dei 18-29 enni mentre viene creduta dalla metà degli over 50.
Privacy e Datagate
Cosa pensano gli italiani a proposito della possibilità che qualcuno abbia accesso ai loro dati negli smartphone o nei computer? Una persona su cinque si sente spiata, e una su tre prova paura perché non sa chi possiede questi dati e cosa ne fa. Una percentuale simile (33%) mostra però totale indifferenza. Interessante notare che queste percentuali cambiano nettamente nel caso di internauti che non usano la mobilità, avvertita come essenzialmente più pericolosa.
Se le stesse domande fossero state poste dieci anni fa, i risultati sarebbero stati sensibilmente a favore della sottovalutazione del problema: all’epoca il 35% delle persone riteneva che i dati delle proprie attività e movimenti prodotti da Internet non dovessero essere collezionate da nessuno, oggi è il 59%, una maggioranza schiacciante, superiore a chi si accontenterebbe di enti superpartes. La maggior parte degli internauti italiani, oggi, conosce il lavoro di Wikileaks e di Assange, le denunce di Snowden e il Datagate. Il 73% di loro ritiene inaccettabile la sorveglianza globale da parte dei governi, e sale all”83% nella fascia d’età 45-54 anni.
A cosa serve Internet e a chi
Cercare informazioni, creare, condividere, presentare sé stessi, comprare e vendere. Internet serve a molte cose, ma è talmente chiaro a tutti che non si notano differenze tra utenti e non utenti. Internet è penetrato nello scenario della vita delle persone, anche in Italia, al di là del suo effettivo utilizzo. Il suo ruolo, però, cambia a seconda dell’età. I più giovani, tra i 18 e i 44 anni, hanno consuetudine con il commercio elettronico, con la ricerca di database, con le operazioni più complesse. Molto diverso per chi ha un’età più alta, che considera Internet uno strumento per rappresentare sé stessi, per dire la propria. C’è addirittura un superamento dei 55-64enni rispetto al decennio precedente per l’uso dei social. Alla domanda “se la rete cadesse per tre giorni, cosa ti mancherebbe di più?”, il 12% degli over 55 ha risposto Facebook, un punto percentuale sopra quello dei 18-29enni.
L’altro Internet: il deep web
Dopo la ricerca a campione di Ixè, è venuto il turno di Carola Frediani. La giornalista è una specialista dell’altra faccia di Internet, il cosiddetto deep web, la parte non indicizzata, anonima, della rete, troppo spesso collegata alla criminalità senza un corretto approfondimento. In soli 15 minuti, la Frediani ha mostrato caratteristiche e numeri di questo luogo difficile da visitare e da comprendere, ma che svolge un compito troppo importante per essere considerato soltanto un coacervo di illegalità. Una statistica su tutte, dall’università di Luxembourg: il rapporto tra attivismo politico, giornalismo investigativo, e attività illecite nel deep web è 56% – 44%. Ne parla con Webnews la giornalista che presto uscirà con un libro sul mondo invisibile di Internet.
Hai fatto un viaggio dantesco, andata e ritorno nelle profondità del web non indicizzato: cosa hai visto?
Alcune cose che mi aspettavo, molto attivismo, strumenti e forum per i giornalisti e il giornalismo partecipativo, e altre cose che mi aspettavo meno, ad esempio la forte presenza dell’ambientalismo. Nel deep web, stante il fatto che è piuttosto difficile misurarlo, sono stati trovati almeno 1225 hidden service, si scambiano 9,5 milioni di Bitcoin, e ci sono 900 mila account.
La cosa più strana che hai visto?
C’era una persona che vendeva “vero-finto” abbigliamento di marca. Divertente.
Sembra che la tua intenzione principale sia smentire gli stereotipi sul deep web, senza negare le attività criminali – come Silk Road – che in taluni casi fanno parte di una cultura anarco-libertaria. Quanto è realmente vitale per il web questa sua parte anonima?
Lo è certamente per tutte le persone, e sono migliaia, che senza l’anonimato non potrebbero informare il resto del mondo sui problemi politici del loro paese senza rischiare la libertà o peggio. E penso sia vitale per l’informazione stessa, che grazie a Tor, ai protocolli crittografati, sta ideando nuovi paradigmi del rapporto tra le redazioni e i luoghi caldi del pianeta, anche nel rapporto col potere.