Le autorità britanniche vogliono rottamare l’imposta sul valore aggiunto del 20% sul Bitcoin, rinunciando a regolamentare la crittovaluta secondo i medesimi schemi applicati alle altre monete. Il fisco inglese ha quindi cambiato idea e considererà il Bitcoin come moneta privata, come già accade in Germania, ma con un aspetto ancora più liberale. Londra così diventa la capitale più progressiva sul trattamento delle valute virtuali. Non tutti i paesi vanno però in questa direzione.
L’indiscrezione, raccolta e commentata dal Financial Times, ha certamente molti aspetti interessanti. Un po’ come accaduto con la webtax, anche sul Bitcoin si stanno profilando una serie di dibattiti nazionali dove ogni parlamento, ogni fisco, ogni partito, preme per una regolamentazione diversa, col rischio concreto di alimentare un altro tormentone tecno-fiscal-politico, una #bitcointax. Cosa ha convinto, invece, il fisco inglese a cambiare atteggiamento dotantosi dell’interpretazione più concessiva della normativa europea che esenta i trasferimenti dalle tasse sul valore aggiunto? Le ragioni sono le più diverse, ma ce ne sono almeno due facilmente intuibili: la vocazione finanziaria della city e le numerose startup con sede nel Regno Unito che lavorano a supporto dei Bitcoin, nei settori dell’e-payment, dell’e-commerce, sia software che hardware. Con normative favorevoli, Londra vuole candidarsi ad accogliere tutte le startup del mondo che si occupano di Bitcoin.
Gli altri paesi
Non si può certo dire lo stesso di altri paesi. Molti governi in tutto il mondo si stanno scervellando per trovare una definizione fiscale della crittovaluta: si sono paesi del sud est asiatico, come Singapore, che ha emanato delle linee guida, percorso che sta iniziando anche lo stato di New York. Altri, come il Vietnam, l’hanno messo quasi fuorilegge. Ci sono paesi, come la Russia, che hanno decisamente bloccato le transazioni in Bitcoin. E poi c’è il caso italiano, con la proposta di legge di Sergio Boccadutri ancora in attesa di essere assegnata all’iter di discussione alla Camera.
Pro e contro di una bitcointax
Il problema Bitcoin, dal punto di vista di uno stato, è un rompicapo: da un lato è una tecnologia di forte espansione, dall’altro ha una natura libertaria. L’Europa Unita è un caso emblematico: le istituzioni politiche hanno norme che non prevedono, attualmente, un intervento fiscale, perché contrario alla libera circolazione, dall’altro la banca centrale europea ha più volte avvertito che i consumatori non sono protetti da alcun diritto di rimborso ai sensi del diritto comunitario quando usano le valute virtuali per le transazioni commerciali. In altri termini, se ci fosse nel vecchio continente un caso MTGOX, buona fortuna.
A cosa servirebbe l’IVA sul Bitcoin? In un certo senso, sarebbe una risposta pratica – e un po’ burocratica – al dilemma dei governi, che hanno interesse nella protezione delle imprese che vogliono trarre vantaggio da questo nuovo strumento, ma devono anche proteggere i consumatori dalle vulnerabilità del sistema, giocando un ruolo nel quale una imposta contribuisce, almeno teoricamente, alla tracciabilità della crittovaluta, nella logica di una lotta alla criminalità e all’evasione fiscale. Sempre ammesso che sia possibile forzare il protocollo Bitcoin a questi bisogni, visto che si tratta di un P2P interamente costruito su un approccio di libero scambio illimitato e crittografato.
La Rete italiana non è quella inglese
Il caso italiano, tuttavia, è decisamente più complicato di quello inglese, sembra piuttosto azzardato pensare di fare coi Bitcoin quel che gli inglesi per primi hanno rinunciato a fare. In UK, infatti, vige una separazione netta tra operatori e rete, e quest’ultima è un vero servizio pubblico. Se c’è dunque un paese che potrebbe, almeno in linea teorica, tassare un qualunque servizio che passasse dalla rete, questo è proprio l’Inghilterra. L’Italia è in una condizione completamente diversa, non ci sarebbero le basi industriali e giuridiche per legiferare in tal senso. E si finirebbe ancora nelle discussioni infinite e paradossali tipiche del Belpaese.
I furti, le forti oscillazioni di quotazione, la relazione coi tanti black market di Internet, fanno delle crittomonete un argomento ansiogeno per i governi e la politica, non c’è dubbio, ma il caso inglese insegna che mantenendo, com’è giusto, le tasse sui redditi delle società che operano nel mercato, ma non sulla tecnologia in sé né soprattutto sull’uso privato di questa commodity, si può attirare più facilmente nuova impresa.