È ancora aperto il caso di Jammie Thomas, la madre trentenne incolpata dal tribunale del Minnesota per aver violato i diritti d’autore condividendo sul sito Kazaa 24 brani protetti da copyright. Le case discografiche non hanno infatti digerito il recente declassamento della pena pecuniaria, che da 1,5 milioni di dollari è passata a “soli” 54 mila dollari. Per questo motivo l’Associazione Americana dell’Industria Discografica (RIAA) ha fatto di nuovo ricorso in appello.
La giovane donna americana e la RIAA stanno combattendo a suon di verdetti nelle aule del tribunale dal 2007. In un primo momento la condanna espressa dalla giuria era stata di 1,92 milioni di dollari, pari a 222 mila dollari a canzone. Un secondo processo aveva ridotto la multa a 1,5 milioni, ma successivamente (circa un mese fa), lo stesso giudice federale Michael Davis, ritenendola assurda, spaventosa e addirittura incostituzionale, ha pensato di diminuirla drasticamente a 2.250 dollari per canzone, per un totale di 54 mila dollari.
La richiesta ultima della RIAA è, dunque, quella di rendere nuovamente effettivo il verdetto della seconda sentenza, dichiarando che la cifra milionaria chiesta a Jammie Thomas non sarebbe spropositata, ma anzi giusta, visti gli enormi danni che la pirateria infligge costantemente al mercato discografico.
Jammie Thomas-Rasset non è sicuramente un pericoloso cracker e tanto meno la si può incolpare come uno dei principali artefici della pirateria musicale; tuttavia è molto chiaro come l’insistenza da parte delle etichette discografiche vada inevitabilmente – e volutamente – a trasformare il caso Thomas in un fenomeno mediatico utile come monito per altri potenziali “furbastri”, ponendo all’attenzione dei media un caso che rischia peraltro di diventare un pericoloso precedente che andrebbe a sminuire anche la portata di tutte le future denunce delle major contro i pirati.