Kill Bill of Rights

Sulla Dichiarazione appena pubblicata si sono già espressi tutti, i favorevoli ma soprattutto i contrari: per quale ragione il Bill of Rights divide tanto?
Kill Bill of Rights
Sulla Dichiarazione appena pubblicata si sono già espressi tutti, i favorevoli ma soprattutto i contrari: per quale ragione il Bill of Rights divide tanto?

Il nulla, forse persino dannosa. Un grande passo, una svolta, la prima del suo genere. Come ampiamente prevedibile anche la Carta dei diritti in Internet sta dividendo la popolazione in due frange nettamente distinte, col rischio della vittoria della confusione sulla chiarezza e della noia sulla intelligenza. Si resta quasi allibiti di fronte a tanta dicotomia da chiedersi per quale ragione questo documento infastidisca tanto.

Una carrellata di commenti sul #BillofRights è sufficiente per acquisire la certezza che anche stavolta è guelfi contro ghibellini. Restare nel mezzo, per chi volesse solo valutare il documento e chiedersi quale sia il suo valore e soprattutto il suo futuro, viene percepito come un esercizio degno degli ignavi danteschi. Si parla di Internet, ma sembra di essere nel medioevo. Se però tacessero le spade cosa si sentirebbe nell’aria? Cosa dicono e a cosa servono le parole della Dichiarazione di diritti in Internet? È davvero una piccola costituzione per l’Italia e (addirittura) il consesso internazionale? E come passare dalle parole ai fatti?

Gli aspetti positivi

Il testo della Carta dei diritti (pdf) è indubbiamente scritto bene e affronta molti problemi specifici della cittadinanza nell’era del web uscendone con princìpi a volte timidi e a volte più ambiziosi ma sempre coerenti con l’idea di ridare voce ai cittadini. È la direzione giusta almeno dal punto di vista della Web Foundation, che non ha mancato di complimentarsi con il comitato presieduto da Stefano Rodotà per voce dell’avvocata Renata Avila. Intervistata dall’Espresso, la collaboratrice della fondazione di Berners-Lee ha in sostanza sottolineato come molti punti della carta siano condivisibili, altri forse un po’ deboli (la brevità di quello sull’anonimato ha fatto molto parlare di sé), ma nel complesso sia un documento da valutare positivamente. Il motivo? Quello spiegato bene dall’avvocato Francesco Paolo Micozzi:

La Carta non è immediatamente precettiva (nel senso che non pone regole generali e astratte di immediata applicazione pratica) ma rappresenta un valido strumento per orientare il Legislatore in tutti quei casi in cui si trovi di fronte alla necessità di introdurre nuove norme in materia di diritti. L’altro merito di questa Carta è quello di rappresentare un primo punto di riflessione per i politici che, come abbiamo avuto modo di notare in passato, sono spesso all’oscuro rispetto alle dinamiche delle tecnologie e della rete in genere.

Hanno speso parole positive sulla Carta anche tutti coloro che si riconoscono nel gruppo di Tunisi al World Sum­mit sulla società dell’informazione del 2005 (di cui fece parte anche l’attuale responsabile social media della Camera, Anna Masera, che ha molto seguito il lavori della commissione), quando si cominciò a pensare a un Bill of Rights. Fiorello Cortiana, dell’Igf Italia, apprezza la natura «senza tempo» delle affermazioni di principio degli articoli della Dichiarazione. Vincenzo Vita, dopo aver definito «benemerita» la Carta, ricostruisce tutto il dibattito internazionale che ha portato alla convinzione fosse necessario lavorare a questo tipo di testo. Anzi, l’ipotesi della mozione viene considerata riduttiva:

Si tratta di un approc­cio com­piuto, da spe­ci­fi­care qua e là, ma vero salto di qua­lità. Un mate­riale pre­zioso, da uti­liz­zare come pre­messa per il varo di una legge avan­zata e corag­giosa. Come il «Marco civil». Per­ché non una legge, allora?

L’applicabilità

Appunto. E le leggi? L’applicazione eventuale di questi principi è un’altra storia. La tendenza a codificare è piuttosto vistosa in questa fase politica dell’approccio alla rete, per reazione al periodo troppo lungo in cui si è creduto che l’autogoverno fosse la soluzione migliore e l’unico risultato è aver concesso molto alle multinazionali e ai peggiori progetti politici nazionali, con gli utenti che hanno perso potere sui propri dati. Ora la moda è spingere sul concetto che le transizioni culturali sono la premessa di leggi buone. In realtà però non è scontato e la debolezza principale del Bill of Rights è che non si capisce bene come possa effettivamente essere implementato.

La Carta italiana non può regolamentare la Rete. Se qualcuno potrà eventualmente farlo sarà sulla base di norme che saranno come minimo europee. Dunque a cosa serve la Dichiarazione? Secondo l’avvocato Micozzi sarebbe necessario «individuare a livello internazionale dei principi condivisi che potranno allora essere vincolanti per i singoli Paesi aderenti». E qui scatta la puntualizzazione più concreta dei critici del Bill of Rights. Andrea Lisi, coordinatore del Digital&Law Department, è molto duro sulla natura del documento e la sua possibile applicazione, per diverse ragioni: l’ipertrofia legislativa italiana, la ridondanza di principi già contenuti in altre leggi e dichiarazioni che rischia di far credere ai cittadini che alcuni di essi non siano già oggi esigibili in sede giudiziaria. Preoccupazione che è anche dell’avvocato Massimo Melica che aggiunge un po’ di pepe alla questione del rapporto impossibile tra questa carta e i tribunali.

Il cuore del problema, secondo Lisi, è da filosofia del diritto:

Non siamo un paese di Common Law e questo modus operandi per il nostro sistema giuridico è dannoso. Questi documenti costituiscono ottimi strumenti in un sistema contrattuale internazionale (e anche a livello sovranazionale dove in modo simbolico più stati si impegnano a regolamentare determinate materie ispirandosi a dei principi comuni), ma diviene strumento deficitario se proposto all’interno del sistema giuridico di un paese di civil law.

La fuffosità non morirà mai

Insomma, per dirla tutta l’esperienza della Carta è immancabilmente un po’ aleatoria, per la rigidità del nostro sistema, per il fatto – impietoso – della marginalità tecnologica ed economica dell’Italia, che è una nazione che ama moltissimo parlarsi addosso (ricordate il Codice Azuni?), dividersi in modo brutale su queste stesse parole e, spesi il giusto di numero di anni nella competizione orizzontale, lamentarsi di quella verticale. Nella quale arriva sempre ultima. Da questo punto di vista aver voluto essere i primi a scrivere un Bill of Rights non è necessariamente un cambio di marcia.

E se il difetto fosse altrove?

Eppure continuare a leggere la Dichiarazione per trovarne virtù e limiti, chiedersi quali leggi potrebbe ispirare, sembra non cogliere appieno il senso di queste parole e di questo tentativo. In fondo, un buon esercizio culturale non ha mai fatto male a nessuno e questo, in particolare, non è costato ai contribuenti. Forse il vero problema è proprio alla base di questi diritti, un non-detto: che la rete sia effettivamente “una e indivisibile” come brillantemente definita da Beniamino Pagliaro. Lo è davvero?

La Dichiarazione prende anch’essa una parte, quella del creatore del World Wide Web, Tim Berners-Lee, in contrasto a quanto invece pensa il padre del protocollo TCP/IP, Vint Cerf. Se non si capisce questo non si capisce cosa sta succedendo nel dibattito in corso. Se si accoglie l’idea che la rete sia la cosa inventata nei primi anni Novanta e così dovrebbe rimanere, si tende a considerare lo scarto da essa come un’anomalia pericolosa da correggere. Se invece si guarda all’evoluzione di Internet ci si rende conto che le tecnologie di comunicazione si sono evolute così rapidamente negli ultimi 20 anni che è ingenuo pensare di poter tornare indietro. Oggi il web di Berners-Lee non esiste più. Tre miliardi di persone connesse, le autorità governative e loro intelligence che incorporano eccezioni ai poteri per agire liberamente in rete, il gigantesco business dei fornitori di servizi immateriali, dei grandi gatekeaper, dei protettori della rete e dei suoi violatori – dove magari a guadagnarci è sempre la stessa società privata – non erano immaginabili a quei tempi.

Internet è diventato geopolitica e si è balcanizzato. La rete è fatta di enormi reti concentriche a diverso grado di penetrabilità e intermediazione, sopra una rete non indicizzata ancora più grande, con diversi livelli di osmosi. Tutto orizzontalmente balcanizzato dai diversi approcci delle nazioni, Russia e Cina da una parte, Usa e Regno Unito dall’altra, con l’Europa di mezzo come sempre indecisa nel cercare la sua strada, che finisce spesso per confondere la battaglia sui diritti dei cittadini rispetto alla fame di dati delle web company americane con una politica ostile che avvantaggia la strategia di chi vorrebbe nazionalizzare i server, peggiorando enormemente la possibilità di difendere l’anonimato e quindi cascando nel paradosso di non occuparsi più dei diritti come Bruxelles e Strasburgo dicono di fare. Difetto molto evidente anche nella Carta italiana, dove si include la possibile violazione della privacy “in accordo con le leggi”, e sulla protezione dell’anonimato e la conservazione dei dati è molto vaga.

Ecco perché prima di chiedersi se una Carta dei diritti in Internet sia ben fatta o meno, ci si dovrebbe prima intendere sulla definizione e visione di Internet. Potrebbe non essere la stessa per tutti.

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