La natura dell’iniziativa non è facilmente identificabile, ma il significato è chiaro. Se dunque la Cina ferma un sito che per certi versi può essere considerato come una palestra per cracker, l’azione è importante a prescindere. La contestualizzazione temporale nella scala cronologica che ha portato la Cina al centro degli allarmi di cyberterrorismo internazionale è però cruciale per capire esattamente la portata dell’iniziativa delle istituzioni orientali.
Il sito in questione è il 3800.cc, url ora non più raggiungibile in seguito al veto posto dalle autorità cinesi. Il sito raccoglieva attorno a sé una community da 12000 utenti “vip” (sottoscrizioni a pagamento per accedere a contenuti “premium”) e metteva a disposizione strumenti per l’hacking che potevano essere sfruttati in vario modo, il tutto per un giro d’affari da 1 milione di dollari circa. Quasi 200 mila gli utenti gravitanti attorno al progetto 3800.cc. La chiusura di un sito similare è pertanto significativa, perchè sembra voler rappresentare in qualche modo un impegno solenne da parte della Repubblica Cinese nei confronti della sicurezza della Rete.
Non si tratta, però, di una notizia fresca. Sebbene le autorità abbiano fatto trapelare soltanto ora l’informativa relativa alla chiusura del sito, infatti, il tutto risalirebbe allo scorso Novembre. La chiusura e gli arresti relativi, quindi, sarebbero precedenti di almeno un mese rispetto agli attacchi a Google ed altre aziende, fatto che ha portato la Cina sotto le luci della ribalta ad inizio anno per indebite incursioni in server di aziende occidentali registrate a metà Dicembre. Strano, però, il fatto che il dominio sia stato rinnovato in data 23 Gennaio 2010, quando il legittimo intestatario già risultava agli arresti ed il sito già chiuso per ordine superiore.
Secondo quanto comunicato dall’agenzia Xinhua, il sequestro è stato comprensivo di 249 mila dollari in proprietà varie, nove server, cinque computer ed una automobile. Due ragazzi (Li Qiang, 29 anni, e Zhang Lei, 28 anni) sono agli arresti e dovranno rispondere alle autorità sulla base delle misure previste dalla Black Hawk Safety Net.
La Cina, insomma, ha sbandierato la propria attività repressiva nel momento più opportuno, adoperando strumentalmente il tutto a fini di propaganda. Molti siti omologhi rimangono però online e, soprattutto, non è chiaro se lo stato abbia impegni diretti e specifici nelle attività di cyberspionaggio così come denunciato da Google.