La più grande promessa della blockchain è quella di portare servizi e soluzioni su piattaforme decentralizzate. Il vantaggio? Togliere di mezzo l’oligarchia di individui e organizzazioni che detengono, nelle loro mani, il controllo delle attività, che si tratti di finanza, salute, istruzione o commercio. Purtroppo, quell’incipit oggi non è rispettato pienamente, o meglio, lo è solo in parte.
Stando a una ricerca di CryptoCompare, solo il 16% di tutte le piattaforme crittografiche al mondo è decentralizzato. Il resto, dunque l’84%, poggia su server privati o monitorati da società chiuse, senza alcuna partecipazione al pubblico. Lo studio ha analizzato centinaia di monete e operazioni che sostengono di supportare la blockchain, dimostrando come, dopo un primo periodo di effettivo decentramento, la tendenza sia quella di adottare la catena di valore a livello tecnologico, per gli effettivi vantaggi che comporta, ma non nella sua funzione tout court, che prevede un cambio di paradigma concreto, lontano dalle logiche accentratici del passato.
Il punto fondamentale è che i progetti centralizzati spesso fanno riferimento comunque ad un centro di smistamento entrale, di rado open source. Il motivo, per certi versi, è comprensibile: il 55% di quell’84% riguarda piattaforme finanziarie, soggette a valutazioni e verifiche da parte di autorità governative, come la Securities and Exchange Commission (SEC) statunitense.
Fa riflettere che sulla totalità degli asset odierni, solo In effetti, solo il 16% sia classificabile come realmente blockchain, almeno nell’ottica considerata dal fantomatico creatore Satoshi. Una rete fidata e decentralizzata è sicuramente possibile ma non in tutti i campi di utilizzo pensati sinora. Il settore finanziario è decisamente il più delicato, per questo da esaminare con costanza, difficilmente idoneo ad abbandonare nella sua interezza il concetto di decentramento delle risorse.