La violazione della privacy è un po’ come il dolore. Dopo un po’ la sensibilità diminuisce, e deve aumentare l’offesa affinché il male possa aumentare. Al dolore c’è assuefazione. Alla perdita della propria privacy, in qualche modo, anche.
In queste ore ha fatto scalpore Google Latitude. Ne abbiamo potuto leggere sui giornali, lo abbiamo visto citato ai tg. Trattasi di un servizio curioso, ma per l’ennesima volta si cade nella teatralizzazione della tecnologia e nell’urlo terrorizzato verso la tragedia: orrore, la privacy non esiste più. Così Google Latitude è stato visto come un modo per scoprire se il partner ha l’amante, per spiare le mosse di un nemico, per tenere sotto controllo i figli. Sempre e comunque con accezione negativa, assoluta ed antagonista.
Ma non occorre un grosso sforzo di memoria per ricordare ciò che successe quando Google lanciò Gmail. Era il 1 aprile del 2004 quando la sorprendente casella di posta da 1Gb prendeva forma. Passarono poche settimane e l’urlo si alzò feroce, con “accezione negativa, assoluta ed antagonista”: Gmail rappresentava una inaccettabile violazione della privacy, il Grande Fratello di Mountain View ci avrebbe controllato nella nostra posta privata, le varie legislazioni avrebbero dovuto intervenire per fermare tale insulto alla segretezza della corrispondenza. Passati pochi mesi le polemiche si sono spente. Passati pochi anni Gmail è una realtà solida, estremamente diffusa e sempre più invasiva (passando all’instant messenger ed alle videochiamate).
Come per il dolore, con il tempo anche la paura lascia il posto all’assuefazione. Il nostro tasso di tolleranza s’è elevato, abituandosi al nuovo livello e dimenticando. È un istinto di sopravvivenza, o forse una sorta di Benzodiazepine presa a piccole pillole un giorno dopo l’altro.
Google Latitude avrà medesimo decorso: gli articoli terrorizzati si spegneranno nel giro di pochi giorni, i tg dimenticheranno presto. Poi, poco per volta, inizieranno le attivazioni ed entro pochi mesi milioni di persone saranno contrassegnati sulle mappe del servizio a tutto beneficio dei servizi e delle pubblicità di Google.
Oggi la stessa azienda ha fotografato casa nostra. Sa dove siamo. Sa cosa scriviamo e cerchiamo. Conosce le nostre password, vede dove facciamo acquisti. Ci consiglia le ricerche e ci suggerisce le pubblicità migliori. In certi casi conosce pure il nostro DNA, nonché i risultati degli esami del sangue.
Ma si badi bene: queste informazioni non le ha rubate. Google le ha semplicemente richieste e gli utenti le hanno consapevolmente consegnate. Non c’è “violazione” della privacy. C’è solo uno scambio equo tra informazioni e servizi, scambio sul quale però solo una delle due parti ha pieno controllo. L’altra parte, assuefatta, prende una pillola dopo l’altra. Ed è felice.