Il caso della casalinga disabile Tanya Andersen è assorto agli onori delle cronache nel 2005, anno in cui la RIAA, ovvero l’associazione che riunisce le principali etichette musicali statunitensi, ha accusato la donna di file-sharing illegale e di conseguente violazione di copyright. Sopravvissuta alle persecuzioni della RIAA e assolta dall’accusa “con pregiudizio”, Andersen ha deciso di condurre una vera e propria class action contro l’associazione, richiedendo 300.000 dollari di risarcimento danni. Nonostante la controfferta fosse stata di solamente 30.000 dollari, un magistrato dell’Oregon, dopo aver attentamente osservato il caso, ha ora richiesto un risarcimento pari a 107.834 dollari.
Le vicissitudini di Tanya Andersen sono diventate un esempio emblematico del modus operandi della RIAA, tuttora incapace di adattarsi alle nuove tecnologie e piuttosto avvezza nell’abusare della propria posizione pur di perpetrare la sua opera di controllo. In un documento di 109 pagine depositato presso la corta distrettuale dell’Oregon, viene raccolta la lunga testimonianza di Tanya Andersen, la quale racconta nei dettagli tutte le angherie che ha dovuto subire per essere stata additata come “piratessa”, dal momento che aveva, secondo l’accusa, condiviso su KaZaa una folta libreria di materiale “gangsta rap”.
Secondo la testimonianza della Andersen la RIAA non ha mancato di utilizzare metodologie alquanto discutibili pur di arrivare a dimostrare la colpevolezza della donna, non mancando di citare in tribunale persone decedute e bambini, spiare la sua vita e perpetrare minacce, il tutto semplicemente sulla base di un indirizzo IP. L’accusa peraltro giunge alla sentenza dopo un incidente iniziale che rischiava di minare l’intero iter giuridico.
Il caso sembra ora procedere verso la sua risoluzione: Tanya Andersen può finalmente scorgere all’orizzonte un indennizzo monetario per tutti gli sforzi sinora compiuti mentre sul capo della RIAA pende una accusa di estorsione, frode e pratiche commerciali ingannevoli.