Una regola non scritta dice che maggiore è la distanza a cui avviene un fatto, maggiori sono i morti che debbono esserci affinché faccia notizia. Si spiega soltanto così il fatto che in Italia lo scandalo Baidu abbia fatto così poca presa. La rete nostrana ha rivolto lo sguardo altrove, eppure oltre la Muraglia c’erano persone che avevano affidato la propria fiducia ed il proprio destino ad una query. Cosa che, è dimostrato, avviene anche qui da noi. Che succeda al di là o al di qua della Grande Muraglia, insomma, forse è venuto il momento di fermarsi un attimo a rivedere la situazione.
Lo scandalo Baidu è scoppiato direttamente sulla tv di stato cinese. Il motore di ricerca leader in Cina (con Google a distanza di sicurezza) è stato infatti accusato pubblicamente di praticare politiche quantomeno pericolose nella composizione delle proprie SERP (Search Engine Results Page). Ma non si tratta di una policy difettosa in cui la critica guarda esclusivamente all’algoritmo: ad essere favorite dal sistema, infatti, erano aziende che operavano nel mondo della medicina, con ricadute dirette sulla salute degli utenti utilizzanti il motore.
Baidu, in pratica, favoriva quei gruppi che si affiliavano al motore con inserzioni a pagamento. Il rapporto tra le parti non si limitava ad una questione di pay-par-click, però: anche il ranking veniva influenzato dalle regole del motore, così che tramite un semplice pagamento fosse possibile scalare le SERP e portare il proprio url ai vertici delle pagine del motore. Se a tutto ciò si uniscono documentazioni fasulle e para-medicina, se ne esce con una truffa che va ben al di là dei soli confini del Web e che va invece identificata in botticini di medicinali inutili o in corsie di cliniche inadeguate e truffaldine.
Un esempio pratico di come la “truffa” (le virgolette, per vari motivi, debbono permanere) veniva posta in essere è in una clinica che su Baidu aveva portato inserzioni che pagava 16.56 yuan (1.9 euro circa) per ogni singolo click praticato dagli utenti. La clinica stessa avrebbe ospitato un paziente proveniente direttamente da una query su Baidu ed avrebbe praticato cure per un corrispettivo di 10.000 yuan (1.150 euro circa). Le cure, oltre a costare 100 volte tanto un omologo trattamento presso le aziende sanitarie nazionali, si sarebbero anche rivelate inadatte ed inefficaci, tramutando così una query composta sul motore di ricerca in un autentico dramma personale.
Il valore in borsa di Baidu è crollato nel giro di poche ore e, mentre lo scandalo risulta tutt’altro che passato, il CEO del gruppo Robin Li è intervenuto pubblicamente per spiegare come il “pay-per-performance” sia stato modificato, le aziende irregolari siano state depennate dall’indice del motore ed i dipendenti responsabili della falsificazione di alcune certificazioni siano stati licenziati in tronco. Per chiudere il caso probabilmente basterà. Ma non per chiudere un dibattito che è destinato soltanto ora ad aprirsi realmente.
E mentre in Cina si affondavano le azioni Baidu come reazione di rigetto a quanto avvenuto sulla pubblica piazza della televisione nazionale, nel mondo occidentale prendeva il largo (con tanto di numeri a supporto) il concetto di Cyberchondria. Con curiosa contemporaneità ai misfatti cinesi una ricerca Microsoft giungeva infatti alla pubblicazione dei risultati, riconsegnando l’immagine di un fenomeno per certi versi preoccupante che affonda le proprie radici direttamente nel rapporto tra salute, utente e motori di ricerca.
Sebbene la parola appaia “esotica” (nel senso lato del termine), dietro la Cyberchondria c’è molto più di una fumosa idea che trasforma una abitudine in malattia (le varie storie sulla dipendenza da internet hanno già insegnato molto in tal direzione). Il concetto di Cyberchondria, infatti, è improntato proprio sull’assenza di malattie, malattie che è però il web a creare nella psiche semplicemente proponendo il proprio modello di SERP su una tematica che richiederebbe probabilmente un approccio diverso. Microsoft ha approntato tale ricerca con questo scopo specifico: capire in che misura l’utenza affidi l’autodiagnosi ai motori di ricerca e quanto importanti possano essere le conseguenze di questa nuova formula di disintermediazione.
Il passaggio da sintomo a diagnosi, infatti, muta radicalmente: non v’è più un medico che analizza ed interpreta, ma v’è una sorta di traduzione automatica, basata su eventi probabilistici (la natura intrinseca dei motori di ricerca è intrisa di statistica), che mette l’utente al centro delle proprie decisioni per se stesso. Il medico viene surclassato e diviene semmai un appoggio successivo, quando e se l’utente non trova uno sbocco per andare dritto al problema ed alla cura.
La ricerca ha evidenziato come vi siano persone maggiormente propense alla cosiddetta “escalation” (un aggravamento psicologico naturale del proprio stato di salute), per le quali il problema si fa più concreto. La ricerca sul web, infatti, è frutto di una interazione tra un algoritmo (le scelte del motore di ricerca) ed un comportamento (quello dell’utente): se il primo tende a portare online situazioni estreme, perchè maggiormente ricercate, e se il secondo tende a vedere in un mal di testa un tumore piuttosto che una emicrania, la frittata è fatta. La sinergia che si crea tra motore e utente porta all’escalation e le diagnosi non son più basate su fondamenti scientifici, ma piuttosto su sensazioni e paure, che nelle loro distorsioni arrivano in seguito ad autorinforzarsi. Nasce in questo meccanismo una nuova forma di ipocondria basata sul web, che parte dalle query per arrivare alle paure che giocoforza si impossessano di noi quando il corpo lancia allarmi che non riusciamo immediatamente ad interpretare.
La disintermediazione è un effetto diretto della nuova cultura digitale: un medium pervasivo ed onnicomprensivo come il Web non può che forzarne le dinamiche, spingendo ad un contatto diretto tra gli attori e depennando ogni passaggio intermedio. La disintermediazione ha portato non pochi vantaggi: la caduta di ostacoli nei percorsi di vendita, l’annichilimento di tappe intermedie che rallentano i processi, l’annullamento di sacche speculative. In generale si giunge una maggior rapidità ed un minore costo. Se l’utente accetta tutto ciò è perchè sa di potersi basare su standard qualitativi e su meccanismi che facilitano il passaggio verso una nuova logica, tralasciando l’utilità degli intermediari e mettendo direttamente in tasca quanto avanzato in questo nuovo contratto con il venditore.
Ma quando si parla di salute tutto ciò non può avviarsi nella stessa direzione con la stessa facilità. Perchè quando si parla di salute gli standard non esistono per definizione: ognuno è un caso a sé, ognuno merita differente attenzione; tra sintomo e diagnosi non può esservi un rapporto biunivoco. Gli algoritmi dei motori di ricerca non sono adatti a questo tipo di approccio: qui la probabilità è pericolosa, e la stessa selezione delle fonti è pratica determinante. Il caso Baidu deve, pur se nella sua esagerata estremità di condizioni, essere di insegnamento: i motori di ricerca, se intendono recuperare dal mercato anche quella (considerevole) fetta di query concernente il mondo della salute, dovranno capire come rapportarsi con l’utenza.
Microsoft e Google sono le aziende che più di ogni altra stanno investendo in questo ramo. Partendo da 23andMe fino ai canali HealthVault, entrambi i poli sono già orientati ad un futuro in cui la tecnologia saprà indirizzare l’utente verso le migliori soluzioni per il proprio stato di salute. Veicolare tali scelte potrebbe essere di fondamentale importanza per conquistare la fiducia degli utenti. Avere un motore che filtra le fonti, ordina il ranking secondo parametri chiari e trasparenti, garantisce la privacy ed utilizza percorsi di ricerca raffinati significherebbe avere una porta aperta alla disintermediazione anche in questo settore. Allo stato attuale, invece, i pericoli sono probabilmente di più (e più gravi) rispetto alle opportunità.
Quando il discorso 23eNoi prese piede, le riflessioni erano di simile caratura. La presenza invadente di un motore di ricerca, le minacce della disintermediazione, la ricerca di informazioni su se stessi. Poi è venuto il caso Baidu, quindi i primi numeri sulla Cyberchondria. Le ultime notizie sull’anoressia si inquadrano nella stessa direzione: motori di ricerca che, fungendo da nuovi intermediari, restituiscono deresponsabilmente risultati “pro-ana” da una rete intrisa di informazioni distorte, errate, tendenziose ed oltremodo pericolose.
Sì, è venuto il momento di fermarsi a riflettere un attimino per capire come ci si debba comportare. Perchè qui si parla di salute, roba dove una patch a volte non basta per risolvere un bug.