È il sandwich più famoso del mondo, eppure non si mangia in nessun fast food: il Double Irish Dutch è la formula che identifica lo stratagemma geografico-finanziario grazie al quale i grandi colossi come Apple e Google riescono a pagare il minimo di tasse e ad eluderle, di fatto, nelle singole nazioni dove pure operano e vendono i loro prodotti. In Australia, però, si sta pensando a una legislazione di contrasto.
L’idea di David Bradbury, sottosegretario al Tesoro, è quella di raccogliere più tasse dall’e-commerce globale tramite una combinazione di norme sui trasferimenti finanziari up-pricing, quelli fatti per aumentare il margine di guadagno sul prodotto venduto senza aumentarne il prezzo bensì abbassando l’imposta:
Anche se i contratti commerciali quotidianamente siglati tra le aziende australiane e Google sono con Google Australia, in realtà comprano la loro pubblicità formalmente da una filiale irlandese di Google. Si sostiene quindi che la fonte di tale reddito – e quindi i diritti di imposizione sotto il nostro trattato fiscale – sarebbe in Irlanda invece che in Australia.
Spostare l’imposta sul reddito fuori confine, tramite movimenti contabili, è diventata la scappatoia marchio di fabbrica dei nomi maiuscoli della Silicon Valley, con disappunto dei governi che vorrebbero poter applicare le loro aliquote garantendo un introito alle casse statali, o quantomeno aiutare gli interessi locali. Una diatriba iniziata tempo fa, ma che soltanto ora sembra accelerare in una battaglia.
In Francia, Hollande spinge per un accordo tra Google e gli editori minacciando un intervento legislativo dopo Natale (e i colleghi italiani e tedeschi osservano interessati); l’Europa multa i paesi che, attirati dalle sirene dei bookstore online, abbassano l’Iva sugli ebook senza il suo permesso. C’è grande confusione sotto il cielo dell’economia legata all’elettronica di consumo e alla conoscenza distribuita in Rete, tanto che Gran Bretagna e Germania hanno persino chiesto che il prossimo G20 si occupi della questione.
Il governo australiano ha calcolato che lo spread di tasse a vantaggio per Google (ma non è certo l’unica azienda a godere di questo vantaggio) è di ben 14 punti percentuali. Da par suo, Mountain View ricorda sempre i benefici della presenza di Big G nella terra dei canguri: 650 dipendenti, migliaia di nuove imprese online, un contributo significativo all’economia del paese e nel rispetto delle sue norme fiscali, che permettono – è bene specificarlo – tutto quanto, compresa la complessa struttura fiscale che passa dall’Irlanda a una controllata olandese a sua volta pagata da una holding con sede alla Bermuda, dove non esistono tasse.
La questione, quindi, è che forse le norme di una singola nazione servono a poco: i colossi della rete hanno creato un luogo virtuale tax-free a giurisdizione speciale e potenzialmente indeterminata. Ci vorranno accordi transnazionali, come sarebbero necessari per una Tobin-tax. Di cui si parla da trent’anni, ma non si è ancora fatta.