Per le principali case discografiche il 2010 inizia con una nuova querelle legale. Una corte federale statunitense ha deciso di riaprire una causa antitrust nei confronti delle major della musica, accusate di aver messo in atto strategie tese a coordinare le politiche sui prezzi per i download dei brani musicali dalla Rete. L’iniziativa legale è stata assunta dalla Corte d’Appello di New York, che ha così ribaltato il precedente pronunciamento di un tribunale di prima istanza che aveva respinto una denuncia sulla delicata questione del presunto cartello delle etichette discografiche per la musica online.
Secondo uno dei giudici della Corte d’Appello, Robert Katzmann, i promotori della causa contro le major avrebbero prodotto sufficienti evidenze per provare la supposta presenza di un accordo sui prezzi tra le case discografiche. Tale condizione è stata ritenuta sufficiente per riaprire il caso e approfondire le accuse e le richieste delle parti in causa. La vicenda interessa buona parte dell’industria musicale e comprende nomi importanti nel panorama della discografia come EMI Group, EMI Music North America, Sony Corp., Sony BMG, Bertelsmann, Vivendi – Universal Music Group e Warner Music Group Corp.
Il caso da poco riaperto deriva da una serie di cause legali a livello statale e federale avviate tra il 2005 e il 2006. Secondo i promotori delle cause, le major avrebbero adottato strategie comuni tesi a massimizzare i loro profitti a danno degli utenti. Le case discografiche sono accusate di aver gonfiato le cifre richieste ai consumatori per l’acquisto dei brani musicali disponibili online e di aver creato una sorta di cartello per mantenere alti i prezzi. Infine, le principali major avrebbero ridotto sensibilmente il numero di store online sui quali trovare i file musicali per controllare meglio il mercato e le politiche sui prezzi.
Molte delle accuse rivolte alle etichette discografiche sono legate al periodo in cui furono fondante le joint venture MusicNet e Pressplay, ora scomparse dal mercato. Nelle intenzioni delle major, i due servizi dovevano diventare gli unici canali di distribuzione della musica online protetta da DRM e da licenze particolarmente restrittive. Terminata l’esperienza fallimentare dei due servizi, le case discografiche avrebbero dato vita a un ulteriore accordo per fissare il prezzo minimo dei brani musicali a 70 centesimi di dollaro così da garantirsi un buon volume di introiti anche in un mercato più “libero”.
Nonostante la gravità delle accuse, per i promotori della causa legale non sarà semplice far valere le proprie ragioni. La documentazione finora prodotta è basata su una dettagliata serie di deduzioni, ma non offre prove dirette sull’esistenza del presunto cartello tra le major. Mancano ancora i nomi dei dirigenti potenzialmente coinvolti, le circostanze nelle quali gli stessi si sarebbero incontrati per fissare le politiche comuni o qualche documento riservato che dimostri nero su bianco quanto sostenuto dagli autori della causa legale. La mancanza della proverbiale pistola fumante getta alcune ombre sui possibili esiti del caso da poco riaperto e la fase processuale potrebbe rivelarsi più lunga, e intricata, del previsto.