Ha fatto scalpore nelle ultime ore la denuncia di Marco Camisani Calzolari il quale, con una spesa di appena 20 dollari, ha fatto propri in un click ben 50 mila follower su Twitter trasformando così radicalmente l’immagine del proprio account sul social network. Il tutto avviene con estrema semplicità tramite appositi servizi che mettono a disposizione i falsi profili con i quali “certificare” una influenza che ha lo stesso valore di talune lauree in Albania di recente scoperta.
La denuncia non scopre in verità nulla di nuovo (la pratica della compravendita di falsi account è risaputa da tempo), ma ha il merito di portare alla luce un fenomeno paradossale e deleterio grazie ad una dimostrazione tangibile. Il che ha appalesato lo scandalo, ha generato lo sdegno generale e denudato un certo qual sistema.
Incipit e chiosa sono nelle parole stesse di Marco Camisani Calzolari: «È tempo di cambiare le cose. Le aziende (a volte consenzienti) non possono continuare a pensare che i fans/likes siano tutti veri, così come molte company di Internet PR devono iniziare a vendere meno fuffa…». L’invito è quello di un ritorno a parametri più oggettivi di valutazione, cercando di fare una vera comunicazione senza perdersi nel mare di falsi numeri e cifre gonfiate ad arte per una necessità estetica. Un necessario appello alla verità, insomma, poiché ne va della credibilità dell’intero sistema.
Una economia che si basa sui follower per rivendere la propria immagine e la propria influenza è una economia farlocca, dai bilanci falsati. L’economia dei follower è peraltro l’economia del mainstream, che misura tutto in termini quantitativi. Ma sarebbe come misurare il vino in bottiglie, senza leggere l’etichetta: guadagna di più l’azienda che vende più bottiglie, o quella che vende il vino migliore? Domanda la cui risposta è meno ovvia di quanto potrebbe sembrare, purtroppo.
L’economia dei follower è fragile, fragilissima. Una volta messi alla prova, infatti, i falsi follower fanno venire alla luce il nulla assoluto che nascondono, impossibilitati a generare qualsiasi coinvolgimento, feedback o risultato di ritorno. Si tratta pertanto di una economia di facciata che non può funzionare, poiché basata su di una bugia di fondo: simulare una folla che ci segue non ci rende capibranco se al primo comando la folla si dilegua. Quando manca il coinvolgimento, manca tutto. Ma se il coinvolgimento non è facilmente misurabile, non è al tempo stesso nemmeno facilmente vendibile. Il corto circuito è in questo nodo, sul quale il sistema si inceppa ed offre a persone senza scrupoli una immeritata opportunità.
Sistemi basati su questa logica, giocoforza, sono destinati a non durare. Tuttavia, nel momento in cui nascono, generano un enorme disturbo all’intero ecosistema circostante: quando aziende poco informate si affidano ad agenzie poco professionali, i professionisti dell’economia dei follower possono approfittarne drenando denaro al sistema. Se ne esce con un percorso privo di qualsivoglia meritocrazia, fatto di disordine, nel quale il flusso del danaro non va nelle direzioni in cui dovrebbe andare per stimolare il sistema. Il danno è generale, pervasivo, infido.
L’acquisto del consenso
Ma l’economia dei follower, del resto, non è soltanto online. Pochi anni or sono scoppiò un caso clamoroso a seguito della scoperta di numerosissime tessere di partito mai né firmate, né tanto meno acquisite. I candidati avevano bisogno di queste tessere per presentare un’immagine più corposa al cospetto del partito, così che alla prossima tornata elettorale fosse il loro volto a comparire sui manifesti: un investimento in “follower” che sarebbe stato monetizzato durante il mandato nei modi che la politica italiana sta mettendo in luce in questi mesi con estrema chiarezza.
E negli ultimi giorni qualcosa di molto simile è successo con il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il quale si è presentato a capo di una “marcia per la vita” (contro l’aborto) con a seguito una schiera di persone in parte assoldate, e pagate 40 euro per il servizio prestato, tramite apposito annuncio di lavoro.
L’economia dei follower non è quindi soltanto un problema di Internet. E’ un problema culturale. E’ il rigurgito di un mondo mainstream che di fronte a nuovi modi di coinvolgere si trova in difficoltà e cerca quindi di ottenere il consenso acquistandolo in qualche modo. L’acquisto del consenso è infatti qualcosa di ben più vecchio del solo Twitter, e sul social network ha soltanto trovato una nuova propria forma di espressione.
Il consenso affianca il botulino ed i follower diventano un intervento estetico per rivendere il proprio volto pubblico al miglior offerente. L’economia dei follower del resto è così, mercimonio di un successo mai conseguito, alla ricerca di una notorietà mai guadagnata.
Ma le bugie hanno le gambe corte. Ed i follower hanno vita breve. O almeno così non resta che sperare.