C’è un errore umano dietro il pallido black-out di Google. Ma c’è un errore umano anche dietro le sue interpretazioni. C’è un errore umano, soprattutto, nell’informazione che lancia allarmismi pur senza averne concrete indicazioni. Perchè l’allarme vende, perchè l’allarme è quel che permette piroette improvvise che distolgono dalla monotonia di un weekend privo di spunti informativi degni di nota.
Questo titolo è quello che, più di ogni altro, descrive la situazione. Punto primo: il problema (di per sé privo di conseguenze, contenuto in pochi minuti e risolto senza effetti collaterali) viene reso allarme ed inserito in un finto contesto di isteria collettiva. Punto secondo: il problema viene attribuito ad un virus, cosa del tutto infondata. Punto terzo: la motivazione legata al virus viene fatta risalire al “tam-tam” della rete: si scarica ogni responsabilità citando una fonte intangibile, di per sé volatile, per sua natura non identificabile.
L’informazione ha lavorato così nel caso specifico: sull’allarmismo, su una totale assenza di indagini che non fossero quelle di un mero sondaggio sul Web, spingendosi in alcuni casi fino ad una improbabile ipotesi di un virus.
Il “tam-tam della rete“, soprattutto, è l’espediente a cui l’informazione ricorre sempre di più per pararsi le spalle. Il giornale di turno rivolta uno specchio verso il Web e ribadisce quel che la rete va dicendo. La rete legge il giornale per avere una fonte indagatoria affidabile, e vi vede semplicemente riflessa la propria immagine. Quel che torna alla rete è solo una foto ridondante del caos, senza che alcuno abbia tentato una interpretazione. Rischiando, magari, ma quantomeno evitando allarmismi.
L’errore è stato umano. Nel mettere lo slash malandrino, nel rilanciare la notizia, nell’attribuire cause improprie pur di avere il titolo ad effetto. Fortunatamente il tutto si è esaurito in 40 minuti. L’assenza di problemi successivi cancella ogni possibile ripercussione ulteriore. Ma l’errore, nell’approccio giornalistico, si ripropone ciclicamente. In questo caso, quindi, siamo oltre l’errore umano: siamo già alla perseveranza diabolica.