Solo best seller, noir, titoli del momento o con fascetta? E chi l’ha detto che invece sotto l’ombrellone non ci si possa portare qualche libro che parla della società della tecnologia, dell’innovazione, dei social network e della democrazia liquida? L’era digitale non si ferma con il caldo e le vacanze sono l’occasione di leggere libri appassionanti per la community attenta ai temi spesso affrontati su Webnews. Ecco qualche titolo.
Quella storiaccia di Twitter
Migliaia di documenti, un totale di 75 ore di interviste ai fondatori e centinaia di testimonianze di dipendenti, ex dipendenti, concorrenti, politici, tutti coloro che oggi o in passato hanno contribuito alla nascita di Twitter e ne hanno osservato l’evoluzione. “Inventare Twitter” di Nick Bilton è un esempio clamoroso di biografia non riconosciuta di un colosso della Silicon Valley, che però difficilmente potrà essere smentita, anche negli aspetti meno edificanti della sua storia. Il libro riserva al lettore un insegnamento poco alla moda e utile per uscire dalla retorica del successo di una startup: creare un’azienda rivoluzionaria non è una cena di gala e bisogna essere pronti a tutto. Anche a un golpe.
Per questo motivo il libro del columnist del New York Times non comincia dal principio, nel 2005, quando un gruppo estroso di fanatici del web stava lavorando al sito dei 140 caratteri, ma catapulta il lettore in una drammatica giornata di quattro anni dopo, precisamente il 4 ottobre 2010, quando si consumò la spaccatura tra il tranquillo Evan Williams, che rassegnò le dimissioni da CEO, e il controverso Jack Dorsey, mentre il diplomatico Christopher “Biz” Stone non riusciva a impedire che scoppiasse una rivalità durissima e il visionario Noah Glass, il nerd secondo alcuni vera anima del progetto, verrà estromesso per sempre dalla storia del social. Il resto è cronaca: miliardi di dollari, mezzo miliardo di utenti, le twistar, la primavera araba, il lancio a Wall Street.
Giudizio: Un grande reportage scritto come un romanzo. Per lettori scafati e interessati al dietro le quinte.
La democrazia non è un sistema operativo
L’autogoverno dei cittadini è ad un passo. Basta avere una piattaforma, votare, e l’intelligenza collettiva manderà in pensione la vecchia democrazia delegata, come questa a sua volta aveva sconfitto i regimi precedenti basati sul censo. Non c’è dubbio: tra i maggiori e più diffusi tecno-entusiasmi, quello della democrazia liquida, della democrazia diretta, gode di maggior successo nella popolazione giovane e in particolare in Italia. In tutto il mondo si moltiplicano esperimenti e casi di opzioni e movimenti politici basati su Internet, ma è davvero tutto così positivo? Ci voleva uno come Fabio Chiusi per analizzare con chirurgica attenzione tutti questi tentativi e smentire il luogo comune: la rivoluzione digitale è sempre promettente, ma ad oggi la situazione delle democrazie nel mondo non è affatto migliorata nonostante tutte queste possibilità.
Da questo assunto parte il suo ultimo libro,
“Critica della democrazia digitale”, che affronta il nodo cruciale del rapporto tra Democrazia – arrivata a un punto morto nella sua parabola occidentale – e Internet, senza fantasie avventistiche, ma cercando di capire perché il cambiamento tecnologico non riesce ancora a erodere le diseguaglianze e talvolta arriva persino a peggiorarle. Fra le tante domande che il giornalista e saggista (citato quest’anno in uno dei temi della Maturità) si pone, anche una citazione dei due più famosi social network:
Facebook e Twitter hanno aiutato i cittadini a riflettere con la loro testa o sono stati semplicemente uno strumento, per quanto diverso dai precedenti, di propaganda in cui il successo di partecipazione è stato il risultato di una spinta al conformismo?
Giudizio: Un bellissimo viaggio da Atene a Casaleggio per riflettere seriamente sul concetto di democrazia diretta, dove la rivoluzione non è Internet in sé, bensì passare dalla logica dell’imposizione a quella del consenso. Per lettori né entusiasti a prescindere, né scettici a priori.
Tutta questa trasparenza
C’è un termine che sta dominando la discussione pubblica e che tutti credono avere soltanto un’accezione positiva: “trasparenza”. Eppure questa trasparenza è un mito, soprattutto oggi che le cose devono essere trasparenti, tutte, sempre, così da non opporre alcuna resistenza al flusso della comunicazione e del capitale. Le azioni di chiunque e per qualunque cosa sono oggetto di reprimenda durissime se non sono operazionali, cioè quando non si sottopongono per loro stessa volontà a un processo di misurazione, tassazione e controllo. Un cambio di paradigma culturale e sociale individuato dal filosofo Byung-Chul Han nel suo ultimo saggio “La società della trasparenza”, un testo che ha interessato anche Luca De Biase, secondo il quale andrebbe letto da tutti. Per quale ragione?
Il piccolo, denso saggio (solo 60 pagine) del filosofo orientale laureato in Germania in Filosofia, con studi di teologia e (stranezza) metallurgia, evidenzia come nella società contemporanea le cose diventano trasparenti e dunque positive e dunque democratiche quando rinnegano la propria singolarità e si esprimono interamente attraverso un prezzo. Il denaro misura di tutte le cose, che rende ogni cosa equiparabile all’altra, abolisce l’arte, la singolarità, e come scriveva Humboldt è “un inferno dell’Uguale”. Questo paradigma apparentemente democratico è in realtà tremendamente coercitivo e banalizzante e da qui nasce una critica durissima alla post-politica, con chiari riferimenti anche al partito pirata tedesco (ma non solo). Ne esce la versione intellettuale e filosofica dei concetti espressi nel controverso romanzo di Dave Eggers, “The Circle” (non ancora tradotto in Italia), nel quale la società sgretola la propria privacy per aderire a un messaggio messianico – il governo algoritmico, la fine di tutti i problemi grazie al trattamento di tutti i dati possibili – che però nasconde molti lati oscuri e una nuova e insidiosa forma di autoritarismo.
Giudizio: Un saggio straordinariamente illuminante, che traccia un percorso alternativo alle parole d’ordine di massa. Per lettori che pensano che vivere in una casa di vetro perché lo facciano anche gli altri e si possa guardarli non è poi così intelligente.
Il mondo intero sotto controllo
A proposito della metafora della casa di vetro, impossibile non leggere il libro del premio Pulitzer 2014, Glenn Greenwald, il giornalista americano che dalle pagine del Guardian ha fatto scoprire al mondo le verità scomode di Edward Snowden, creando il cosiddetto Datagate. Un titolo accattivante, “No place to hide”, per un libro che ricostruisce dal primo incontro per mail con Snowden tutta quanta l’avventura giornalistica che l’ha portato a sollevare lo scoop del nuovo millennio e anche ad affrontare l’inquietudine di possedere dati top secret la cui pubblicazione avrebbe potuto scatenare un caos diplomatico. Prevalsero però i diritti dei cittadini, il diritto di essere informati, e soprattutto la denuncia della violazione costante e massiva del diritto alla privacy di una quantità incalcolabile di persone. Se oggi il mondo sa che, anche attualmente, è online il più gigantesco programma di sorveglianza di massa mai concepito e realizzato, è grazie soprattutto alle persone raccontate nel libro.
Giudizio: Un documento scottante sulla sorveglianza globale, non privo di qualche contraddizione e inevitabilmente non esaustivo. Però questa storia, che non è finita, è già troppo ricca per non dover essere riassunta in un buon libro di chi può permettersi di parlare in prima persona.
I cavalieri dell’Apocalisse sono in California
Un grande romanziere americano commenta alcuni difficili articoli scritti all’inizio del secolo scorso da un giornalista austriaco, ricordando la sua vita di studente in Germania nel 1982 con una borsa di studio. Le possibilità che un libro del genere possa essere interessante per chi volesse riflettere sulla società del digitale sono zero, a meno che questo autore non fosse Jonathan Franzen e il giornalista tradotto e commentato un altro genio come Karl Kraus. “Il progetto Kraus” è un libro indefinibile e questo è un pregio. Nessuno, forse, a parte il premio Pulitzer per “Le correzioni”, avrebbe mai pensato di riportare alla luce gli articoli di Kraus, usandone la sua rabbia, le sue stilettate, la sua critica culturale indirizzata alla società del suo tempo (che correva spedita verso il nazismo senza rendersene conto) per dare un sostrato più antico, più profondo, al suo noto odio verso il consumismo tecnologico, Internet, i social media e tutto quanto porta oggi milioni di persone a fare la fila per l’ultimo iPhone.
Il rischio di sembrare reazionario viene corso, completamente, da Franzen, tanto che negli Usa è stato letteralmente preso di mira su Twitter, ma non criticato dai commentatori più acuti della Rete. Nel suo diario-saggio di traduzione, Franzen rivendica attraverso una sua passione giovanile, quel Kraus «che fu il primo blogger della storia», il suo mondo fatto di connessioni vere, di umanesimo concreto, nel quale è possibile immaginare Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, «forse non l’Anticristo, ma sicuramente ricorda uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse». Se cercate l’ebook è tempo perso: di questo libro, ovviamente, c’è solo la versione cartacea.
Giudizio: Un libro importante e difficile di un autore mai banale. Ogni tanto è bello calarsi nei panni degli altri, imparare a guardare con gli occhi dei grandi fustigatori della società. A volte incompresi, a volte profeti, quasi mai abbastanza rimpianti.