Non è certo una novità. La lotta tra le grandi aziende del settore
Hi-Tech si combatte anche sul fronte del lavoro. Ricerca di talenti, cambi di
casacca che pesano, anche giochi non proprio fair, se necessario. L’ultima
rivelazione viene da un articolo di John Markoff, analista tecnologico
di punta del New York Times. Parlando della guerra dei motori di ricerca ormai
in arrivo, quella che vedrà l’un contro l’altro armati attori del calibro
di Google e Microsoft, Markoff ha svelato un retroscena interessante.
Consapevoli che il vantaggio tecnologico di Google risiede essenzialmente nel
fattore umano, gli uomini di Gates hanno iniziato una politica della tentazione
nei confronti degli impiegati di Google quanto meno aggressiva. Telefonate a
casa con inviti a fare il salto sulla sponda di Redmond, ma accompagnate da
ammonimenti di questo tenore: “Quando Microsoft entrerà sul serio
nell’arena, le tue stock-option potrebbero diventare carta straccia. Pensaci,
finché sei in tempo…”.
Recentemente, la stessa Microsoft ha subito un duro colpo con l’abbandono di
Juha Christensen, che nell’azienda di Bill Gates ricopriva un ruolo chiave
nella cruciale divisione Mobile. Christensen, che è tra i fondatori di
Symbian, presterà i suoi servigi a Macromedia, seriamente decisa
ad espandere l’uso di Flash sui dispositivi mobili.
Come si vede, la ricerca di nuove figure da inserire in organico nasce spesso
dalla volontà (o necessità) di un’azienda di allargare il campo
d’azione in settori diversi dal proprio core business. Apple, ad esempio,
ha di recente assunto un buon numero di uomini provenienti da Oracle,
piazzandoli a capo della divisione vendite per il mercato aziendale, un ambito
tradizionalmente debole per la società di Cupertino, che invece pare
puntare molto su prodotti di fascia alta e business oriented come Xserve
e Xserve RAID.
Ma al di là di questi singoli episodi, il tema caldo, quello su cui
si esprimono quotidianamente in rete e sulla stampa americana opinionisti ed
esperti, ha un nome preciso: offshoring. Se gli USA confermeranno di
essere una sorta di incubatore per tendenze e fenomeni che ricadranno poi sul
Vecchio Continente, faremmo meglio a memorizzarla questa parola.
Si tratta di un’abbreviazione/contrazione dei termini “offshore”
e “outsourcing”. Descrive la pratica di assumere impiegati o appaltare
servizi al di fuori dei confini nazionali. Dal momento che è una misura
volta innanzitutto alla riduzione dei costi, le nazioni privilegiate sono quelle
con un costo del lavoro basso o appetibile per le grandi aziende.
Apparentemente nulla di nuovo sotto il sole. La vulgata anti-globalizzazione,
evidenzia da anni lo sfruttamento di manodopera dei paesi in via di sviluppo
da parte delle multinazionali. Ma finora il processo aveva interesssato essenzialmente
il settore manifatturiero, o servizi come i call-center. Oggi, invece, iniziano
a migrare in paesi come l’India, posti di lavoro e servizi di alto livello.
È bastato creare le infrastrutture tecnologiche necessarie (banda larga
in primis) e, soprattutto, lavorare sulla formazione dei giovani. Il talento
che prima potevi trovare solo nella Silicon Valley o nei campus universitari
più all’avanguardia, ora lo puoi reperire tranquillamente a Bombay o
Nuova Delhi. Dove, last but not least, l’inglese è praticamente
la lingua ufficiale.
Accanto all’India iniziano ad emergere altri paesi. La Cina, per esempio, ma
anche quelli dell’Europa Orientale. Uno studio di Pierre Audoin Consultants
citato da Silicon.com ha indicato nella Romania la possibile prossima frontiera
dell’offshoring, specie per i paesi europei. Anche lì la ricetta è
semplice: formazione, formazione, formazione. I numeri contenuti nella ricerca
parlano chiaro. Un neo-laureato in discipline tecnico-informatiche costa circa
6.000 Euro all’anno. Con 15/20.000 Euro si assume un project manager con esperienza
pluriennale.
L’offshoring, dunque, si colloca al centro di un delicato incrocio tra questioni
sociali, economiche, politiche e tecnologiche. Molti concordano sul fatto che
si tratti di un processo irreversibile. Il dibattito si accende, invece, sul
che fare. I dilemmi sono facili da intuire. Opportunità o minaccia? Difendersi
con il protezionismo o sviluppare nuove attitudini essendo in grado di ri-creare
ciò che viene distrutto? La sfida è aperta.