I suggerimenti automatici di Google nel modulo di ricerca dovranno essere, a richiesta, filtrati. Lo hanno stabilito i giudici di Milano chiamati a considerare gli argomenti proposti da Google contro una precedente decisione analoga ed il tutto sulla base di una denuncia di un utente il quale, una volta compilato il proprio nome nel modulo di ricerca, si trovava tra i suggerimenti “truffa” o “truffatore”.
Il disagio da parte della parte denunciante è evidente, poiché digitando “nome + cognome” si ottiene un suggerimento del tipo “nome + cognome + truffatore” che veicola la ricerca verso risultati probabilmente poco gradevoli se non del tutto fuorvianti. Google, però, ha più volte spiegato di non avere responsabilità alcuna sui suggerimenti e, inoltre, di non poter agire con filtri preventivi che sappiano valutare la bontà delle keyword abbinate. Google ha chiesto insomma che lo strumento di autocompletamento della ricerca automatica possa essere considerato come un semplice algoritmo e non come un suggerimento soggettivo del gruppo, ma il giudice Maria Luisa Padova non ha accettato questa tesi.
L’ordinanza nella sua completezza è stata messa a disposizione da Carlo Piana sul blog “Law is freedom” (pdf) e nella conclusione è chiaro l’approccio pragmatico seguito nella formulazione delle conclusioni:
La ritenuta valenza diffamatoria dell’associazione di parole che riguarda il reclamato è innegabilmente di per sé foriera di danni al suo onore, alla sua persona ed alla sua professionalità. Negare – come fa Google – che una condotta diffamatoria non generi nella persona offesa un danno quantomeno alla sua persona significa negare la realtà dei fatti ed i riscontri della comune esperienza. […]
L’accertata infondatezza dei motivi dedotti con il proposto reclamo ne comporta il rigetto, con la conseguente condanna di Google a rimborsare a controparte le spese della presente fase.
Il cuore del reclamo di Google era nel fatto che le valutazioni e le scelte sono operazioni addebitate all’utente e non allo strumento utilizzato, il quale da parte sua compie semplicemente operazioni algoritmiche. I suggerimenti sarebbero pertanto frutto di un semplice calcolo, e non piuttosto di una valutazione soggettiva (in capo al fruitore). Se «da parte di Google si ipotizza un utente smaliziato, che naviga abitualmente in internet», ciò secondo il giudice non corrisponde però con la media dell’utenza poiché «rappresenta un’immagine certamente corrispondente ad una fetta – ma minoritaria – degli utenti del sistema».
Occorre ricordare come il caso italiano non sia unico nel suo genere e che, anzi, anche in Francia la giurisprudenza ha seguito medesimo approccio. Con apposita sentenza, infatti, lo scorso mese di settembre Google è stato condannato ad una ammenda da 6700 euro per aver fatto automaticamente comparire le parole “stupratore” e “satanista” al fianco di un nome proprio.
A questo punto Google non ha di fronte troppe possibilità se non quella di creare un filtro ad hoc per taluni suggerimenti potenzialmente pericolosi (opzione alquanto problematica) oppure creare un modulo di segnalazione ove poter chiedere la disattivazione di suggerimenti non graditi. Qualcosa lo si dovrà comunque fare, perché l’ordinanza è chiara: i suggerimenti possono essere diffamatori e la responsabilità è in tal caso (e l’ordinanza è relativa al caso specifico relativo al denunciante) in capo a Google.
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