Ricordando i giorni della liberazione con la fotografia che ha palesato per la prima volta gli orrori del nazismo al mondo intero
Il giorno della memoria, torna ogni 27 gennaio a ricordare l’orrore che è in grado di concepire e perpetrare l’essere umano, anche se sarebbe bene non dimenticare che è capace di cambia faccia e bandiera.
Il 27 resta in ogni caso una giornata simbolica che coincide con l’ora della liberazione (1945) del più vasto complesso di campi di concentramento e di lavoro aperti nelle vicinanze della città polacca di Oświęcim, in tedesco Auschwitz. Complesso che raggruppava anche il tristemente celebre campo di sterminio di Birkenau (Auschwitz II) e il campo di lavoro di Monowitz (Auschwitz III), insieme ad altri 45 sotto-campi di lavoro costruiti durante l’occupazione tedesca della Polonia (paese con la popolazione ebraica più numerosa).
L’orrore dell’Olocausto scatenato dalla brama di “Soluzione Finale” nazista, in realtà riempì più di 40.000 campi di concentramento e diverse strutture carcerarie, progettate e costruite dalla Germania Nazista e i suoi alleati, tra il 1933 e il 1945, per agevolare i lavori forzati, la detenzione dei nemici dello Stato e l’eliminazione in massa dei suoi prigionieri (non solo ebrei).
Molto prima dei processi ai responsabili e delle testimonianze dei superstiti, del diario di Anna Frank e della nozione di “banalità del male” di Hannah Arendt, a rivelare al mondo la realtà su quello che molti già sospettavano da tempo, furono le fotografie scattate durante la liberazione dei campi, da fotoreporter professionisti al seguito delle forze alleate come Lee Miller, Margaret Bourke-White, George Rodger, Eric Schwab e Germaine Krull, insieme a ignoti amatori spesso internati e membri degli eserciti francese, inglese, americano e sovietico.
La liberazione mostrò al mondo intero il paesaggio spettrale e la raccapricciante realtà palesata alla prima reporter donna del Life Magazine, entrando con le truppe americane guidate dal generale Patton nel grande campo di concentramento di Buchenwald (aperto nella pittoresca città tedesca di Weimar), fotografando i volti increduli oltre il filo spinato, i forni crematori, le baracche dei lager, protagonisti del video che apre questa segnalazione.
“Registrare ora, riflettere poi; la storia giudicherà”
Margaret Bourke-White scattò fotografie tanto inquietanti e potenti, da indurre Life a rompere la tradizione del tempo (che soprassedeva sugli aspetti terribili della guerra), pubblicandole sul numero del 7 maggio 1945, con il servizio di sei pagine “Atrocities – Capture of the German concentration camps pile up evidences of barbarism that reaches the low point of human degradation“.
«Per 12 anni, da quando i Nazisti presero il potere, gli Americani hanno sentito di accuse di brutalità tedesca. Rese scettiche dalla “propaganda di atrocità” della prima guerra mondiale, molte persone rifiutarono di prestare davvero fede ai racconti degli inumani trattamenti nazisti verso i prigionieri. Dalla scorsa settimana gli Americani non possono più dubitare delle storie della crudeltà nazista. Per la prima volta c’è evidenza irrefutabile, dal momento che le armate alleate, avanzando, hanno liberato campi riempiti di prigionieri politici e schiavi lavoratori, vivi e morti»
Life Magazine, p. 33, 7 maggio 1945
Le fotografie scattate da Margaret Bourke-White e i colleghi di Life come William Vandivert, arrivavano dai campi di Buchenwald, Bergen-Belsen, Gardelegene Nordhausen e furono le prime a documentare la vera natura de campi, per il pubblico in gran parte incredulo del mondo intero.
“Rodger, Bergen-Belsen“. Via Wikipedia.
Prima di diventare uno dei membri fondatori di Magnum Photos, George Rodger (19 Marzo 1908 – 24 Luglio 1995) è stato tra i primi membri del British Army Film and Photographic Unit a documentate le montagne di corpi ammassate tra alberi ed edifici del campo di concentramento di Bergen-Belsen, uscendo da questa esperienza tanto sgomento da decidere di lasciare Life per documentare la fauna selvatica e i popoli dell’Africa e del Medio Oriente.
Uno sgomento analogo a quello provato da Elizabeth “Lee” Miller (Lady Penrose), musa e collega di Man Ray diventata corrispondente di guerra per Vogue, fotografando con David Scherman i campi di concentramento di Buchenwald e Dachau, pubblicati su UK Vogue nel giugno 1945, prima di finire
nello scatto di Scherman che la ritrae nella vasca da bagno della casa di Adolf Hitler a Monaco di Baviera, dopo la caduta della città.
I testimoni degli orrori scoperti al momento della liberazione dei campi di sterminio, contano anche l’obiettivo della Rolleiflex 6 x 6 di Eric Schwab, in viaggio con il giornalista e scrittore americano Meyer Levin, per documentare la sorte del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale, continuando a cercare la madre Elsbeth, deportata nel 1943.
Tra l’orrore e gli internati di Buchenwald, Schwab trova anche i giornalisti che hanno lavorato per la stampa clandestina durante l’occupazione e in uno scatto di sette sopravvissuti, fotografa anche due membri dell’Agenzia Havas, Christian Ozanne in pantaloni a righe, con Maurice Negro che diventerà CEO della nuova Agence France-Presse (in tre occasioni tra il 1946 e il 1954) della quale farà parte anche Schwab.
Il lungo viaggio a bordo della jeep, porta Schwab e Levin da Buchenwald a Dachau, da Leipzig-Thekla fino al campo di Terezin, dove ad occuparsi dei bambini sopravvissuti, il reporter trova la donna piccola ed emaciata sopravvissuta agli stenti e la ferocia delle SS. Sua madre ancora viva.
A tutte queste testimonianze, in seguito si sono aggiunte anche le immagini scattate di nascosto dai detenuti e quelle dei fotografi ufficiali dei campi, tra i quali spicca il contributo su pellicola Agfacolor (inventata in Germania nel 1932) di Walter Frent, noto come fotografo preferito di Hitler, collaboratore di Leni Riefensthal e nazista di provata fede, protagonista del documentario “L’occhio del Terzo Reich” (Das Auge des Dritten Reiches) e autore delle immagini scattate nell’estate del 1944 all’efficenza del lavoro forzato nell’inferno sotterraneo di Dora, realizzato come prototipo di una nuova generazione di campi delle SS per la produzione della complessa tecnologia dei razzi V2 del Reich. Gli stessi razzi che nel 20% dei casi furono sabotati dao prigionieri che ci lavoravano e persero la vita.
Wilhelm Brasse è stato deportato ad Auschwitz dopo aver rifiutò di giurare fedeltà a Hitler e cercato di scappare all’estero, ma da ‘ariano’ con maturata esperienza in un negozio di fotografia, finì a scattare le foto segnaletiche agli internati, compresi i minorenni e le ‘cavie’ degli sperimenti “scientifici” di Mengele.
Dopo aver rischiato la vita per mettere in salvo le oltre 40.000 immagini scattate, da usare come prova contro i criminali della Shoah, i suoi ritratti restano appesi alle pareti del museo del lager, mentre la sua terribile esperienza di fotografo ad Auschwitz è diventata protagonista del documentario “The Portraitist” diretto da Irek Dobrowolski nel 2005.
Il fotografo francese Georges Angéli, arrivato nel campo di Buchenwald il 27 giugno 1943 e assegnato al reparto fotografico, oltre a realizzare foto di identificazione, riprese del campo e delle sue trasformazioni, sviluppando e stampando foto personali dei soldati SS, riuscì anche a fotografare di nascosto il campo con una macchina fotografica recuperata e nascosta nella carta del giornale.
Gli internati del campo di Dachau, nella primavera 1943 contavano anche Rudolf Cisar che riuscì a scattare delle fotografie di nascosto, destinate all’ambasciata sovietica di Stoccolma per denunciare quanto avveniva nel campo, con la fotocamera fatta entrare nel campo con l’aiuto della moglie di un lavoratore esterno (libera di entrare e uscire dal campo).
La resistenza polacca decisa a documentare le 20.000 persone al giorno che venivano uccise a Birkenau nel 1944, a quanto pare riuscì a scattare anche nella camera a gas, con una fotocamera 6×6 nascosta in un secchio.
Tutto quello che è seguito alla liberazione ha riempito pagine di storia e atti processuali, insieme alla fotografia che continua a documentare, compresa quella di Henri Cartier-Bresson, pronto allo scatto tra i rifugiati rinchiusi nel campo tedesco di Dessau in attesa di rimpatrio, con l’incarico del Servizio di Informazioni di collaborare alla documentazione del ritorno dei prigionieri di guerra francesi.
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La BBC è tornata a sorvolare il campo di concentramento di Auschwitz con un drone, la fotografia non ha mai smesso di documentare i crimini contro l’umanità, ma che si tratti di quelli commessi dai nazisti o dai sionisti, dai governi dittatoriali o da quelli più potenti, importa poco se ci limitiamo a ricordare senza far niente per evitare che succeda di nuovo.