L’Unione Europea innalza le proprie difese nei confronti di Facebook: l’ultima novità relativa al riconoscimento facciale (attiva da oggi pur senza specifici annunci pubblici) verrà infatti contestata dalle autorità comunitarie nel tentativo di far cambiare orizzonte alle scelte intraprese dal gruppo di Mark Zuckerberg.
La posizione delle autorità europee è espressa da Gerard Lommel, membro dell’Article 29 Data Protection Working Party: «Taggare le persone dovrebbe essere cosa basata sul consenso preventivo dell’interessato e non è cosa che possa essere attivata di default». Il gruppo Art.29 intende pertanto schierarsi fin da subito e con estrema chiarezza contro Facebook per far capire in modo diretto che un comportamento simile non possa essere tollerato.
La funzionalità introdotta da Facebook è chiaramente opinabile, ma le contestazioni dovranno entrare nel merito della metodologia poiché, come da proverbio, è nei dettagli che va a celarsi il diavolo. Facebook, infatti, non tagga in automatico gli utenti, ma piuttosto ne suggerisce il tag basandosi sul riconoscimento facciale abilitato sulle fotografie. Facebook non fa nulla più di un suggerimento, quindi, ed è l’utente a confermare quanto suggerito dando vita al tag a tutti gli effetti. Diventa pertanto difficile contestare la colpa direttamente a Facebook, poiché il social network altro non fa se non delegare e facilitare un compito fino ad oggi eseguito dall’utente sempre e comunque sulle pagine e con gli strumenti del social network stesso.
Lo sconcerto condiviso è invece relativo alla formula che, ancora una volta, impone agli utenti l’adesione automatica ad un servizio dal quale in molti vorrebbero probabilmente essere tagliati fuori. Facebook ha infatti abilitato di default la possibilità di veder il proprio nome suggerito sulle foto altrui, così che il tag possa essere semplificato dalle tecnologie del gruppo. Seguendo le apposite istruzioni è possibile disabilitare tale opzione (ripristinando così la situazione in atto fino ai giorni scorsi), ma la maggior parte della community da oltre mezzo miliardo di utenti ignorerà i propri diritti e dovrà pertanto subire le conseguenze della novità imposta dal social network.
L’intervento dell’Article 29 Data Protection Working Party sembra opportuno e solido, ma non sarà comunque semplice riuscire ad ottenere un’inversione delle scelte effettuate. Si potrà però quantomeno forzare un compromesso, cercando una formula intermedia che consenta a Facebook di proseguire sulla propria strada di innovazione e, al tempo stesso, garantisca agli utenti piena tutela di fronte a tecnologie sempre più invasive, sempre meno discrete e, soprattutto, sempre meno controllabili poiché attivate in silenzio di default.