Un datore di lavoro ha ragioni concrete di tutelarsi controllando le mail aziendali, e se adeguatamente informato un lavoratore non può appellarsi alla privacy in caso di licenziamento. Farà molto discutere la sentenza della Corte di Strasburgo sul caso di Bogdan Mihai Bărbulescu, un ingegnere rumeno di 35 anni licenziato dalla sua azienda nel 2007 perché aveva utilizzato la sua casella aziendale per scambi personali con la moglie e il fratello. I principi della sentenza sono chiari e condivisibili, si tratta di non abusare di strumenti forniti per il lavoro, ma in tempi di assoluta fusione dei device e delle piattaforme è davvero un concetto accettabile?
La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha analizzato il caso arrivando alle conclusioni che non è irragionevole che un datore di lavoro «voglia verificare che i dipendenti svolgano i loro compiti professionali durante l’orario di lavoro», tanto che il datore di lavoro aveva accesso all’account dell’uomo nella convinzione che contenesse le comunicazioni ai clienti, non per uno scopo di spionaggio della sua vita privata; in secondo luogo, Bărbulescu è stato in grado di raccogliere le sue argomentazioni relative alla presunta violazione della sua vita privata e della corrispondenza dinanzi ai giudici nazionali senza fare menzione del contenuto effettivo delle comunicazioni, e i giudici nazionali hanno usato la trascrizione delle sue comunicazioni solo nella misura in cui si è dimostrato che aveva usato la casella di posta elettronica aziendale e relativa chat per i propri fini privati.
La Corte ha quindi concluso che le corti nazionali avevano trovato un giusto equilibrio tra il rispetto della vita privata del dipendente e gli interessi del suo datore di lavoro. Non c’è quindi stata violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea. In termini ancora più chiari, siccome Bărbulescu era stato informato dal suo datore di lavoro che le sue comunicazioni su Yahoo Messenger erano state monitorate dal 5 al 13 luglio 2007 e che le registrazioni avevano mostrato che aveva usato internet per scopi personali, mentre lui l’aveva negato, non si tratta di violazione della sua vita privata. Inoltre, queste registrazioni non sono state usate a unico sostegno del licenziamento.
Ricorda il Jobs Act
La vicenda rimanda alle polemiche sorte sui controlli a distanza nel Jobs Act, per cui si era parlato di “grande fratello” (espressione ormai abusata) e di restrizione dei diritti dei lavoratori. La sentenza della Corte europea dimostra quanto già detto all’epoca, cioè che in realtà il bisogno di aggiornare la disciplina proveniva dal fatto che da anni era ormai invasa da problemi e sentenze tali per cui era diventato impossibile capire cosa deve fare un datore di lavoro quando installa vari sistemi come i badge elettronici, i lettori ottici, le applicazioni o i navigatori satellitari, ma anche tecnologie molto comuni che appartengono spesso agli stessi device casalinghi di chiunque.
Interpretando un orientamento giurisprudenziale più estensivo sul controllo della strumentazione messa a disposizione del lavoratore, subordinandola unicamente al rispetto delle garanzie previste nel codice privacy in termini di informativa e consenso, il decreto italiano dell’anno scorso in sostanza afferma quanto dice indirettamente anche Strasburgo, cioè che sono autorizzati questi strumenti per «tutti i fini connessi al rapporto di lavoro», ed essendo citati tutti gli scopi sono compresi anche quelli disciplinari.
Sentenza antiquata oppure gli utenti?
Il giornalista Beppe Severgnini sul Corriere della Sera ha criticato la sentenza, rivelando che da vent’anni usa lo stesso account di lavoro per ogni occasione della sua vita e contestando che sia così facile separare ciò che è privato da ciò che è professionale, anzi: la visione per cui i lavoratori sono sempre pronti a usare il tempo e gli strumenti dell’azienda per farsi gli affari propri è secondo lui «aberrante».
Nella grande maggioranza dei casi i dipendenti, anche nel tempo libero, dedicano tempo, passione e attenzione a questioni aziendali. Se non ci credete, ascoltate le conversazioni dei colleghi in pausa pranzo, o partecipate a una cena con medici, insegnanti o giornalisti. I giudici di Strasburgo, queste cose, non le sanno? Usare un’unica casella di posta consente di risparmiare tempo ed essere più efficienti.
Dunque la sentenza non sembrerebbe cogliere le sfumature che le tecnologie hanno ormai imposto nell’uso di questi strumenti e nell’idea stesso di tempo (forse non a caso riguarda un problema sorto quasi dieci anni fa). Così come a volte la vita privata entra nel lavoro non è vero forse che con gli smartphone è consuetudine controllare la mail di lavoro anche molto oltre l’orario normale? Significa però che quando l’azienda apre un account aziendale lascia in mano al dipendente una parte di reputazione del brand al suo dipendente. Gran parte delle persone hanno buon senso, ma altri no e l’azienda deve tutelarsi. Anche in Italia ci sono stati casi di server di pubbliche amministrazioni mandati in tilt per l’upload abnorme di allegati scambiati tra dipendenti e familiari. Per non parlare di casi ancora più spiacevoli come le registrazioni in siti pornografici.
La sentenza è forse un po’ antiquata e pure gli utenti possono essere accusati di una certa arretratezza. Com’è possibile, infatti, che con tutti i mezzi a disposizione (smartphone, modalità anonima nei browser, account gratuiti) non si trovi un’idea migliore che utilizzare la posta aziendale a fini personali? In questo caso il licenziamento oltre che giustificato dalle leggi può essere visto cinicamente come un caso di selezione dei lavoratori digitalmente analfabeti.