Se dovessimo riassumere in una sola frase le posizioni di Mick Jagger, storico front man dei Rolling Stones, rispetto alla storia dell’industria discografica, potremmo dire: “quasi un secolo di furti ai danni degli artisti”. Se si eccettua il periodo che va dal 1970 al 1997, infatti, il rapporto artisti-major è sempre stato teso e fortemente sbilanciato a favore delle grandi aziende.
Prima del 1970, infatti, i compensi agli artisti erano scarsi e spesso inesistenti, come lamenta lo stesso Jagger o come ci insegna la storia di Otis Reddings o di Chuck Berrys. Dal 1970 in poi, grazie a prezzi non certamente pensati a favore dei consumatori, la gallina dalle uova d’oro ha in effetti iniziato a fare arricchire pure gli artisti di fama, almeno quelli mainstream.
Negli ultimi 10 anni, invece, l’avvento di Internet e del file-sharing ha rimesso in discussione gli equilibri fino a ora consolidati e le stesse aziende che hanno “fregato” gli artisti per decenni si ergono a paladine dei loro diritti. Ma il Rolling Stones, che si è definito “tranquillo” rispetto alla pirateria informatica, sembra ritenere che semplicemente siano entrati in una nuova epoca tecnologica.
Un’epoca di vacche magre per l’industria, ma non necessariamente per gli artisti, che continuano ad avere altri canali per ricevere “adeguati” compensi al loro lavoro. Infatti, come ha ricordato tempo fa il pianista David J.Hahn, non risulta che Mozart o Beethoven abbiano mai avuto bisogno di incidere un disco.
Senza contare che secondo Harvard le registrazioni musicali dal 2000 a oggi sono più che raddoppiate. Segno che il nuovo corso non danneggia realmente la musica come forma d’arte.