La morte cerebrale nell’essere umano è considerata irreversibile. Anche nel caso in cui apparecchiature e team medici riescano a mantenere in vita il resto del corpo, i danni riportati dalle cellule del cervello sono considerati non recuperabili. Realtà come Bioquark e Revita Life Sciences mirano a sperimentare l’impiego di tecniche e metodologie da attuare in questi casi di estrema emergenza.
Entrambe hanno ottenuto dagli enti governativi (rispettivamente di Stati Uniti e India) le autorizzazioni necessarie ad avviare una fase di test. La prima si svilupperà lungo alcuni mesi e prevede di tentare la rigenerazione delle aree danneggiate in un totale di 20 pazienti, utilizzando laser, stimolazioni del sistema nervoso e iniezioni sia di peptidi che di cellule staminali. Per quanto riguarda queste ultime, la speranza è che possano comportarsi come quelle di alcune specie animali che, in seguito ad esempio all’amputazione di una parte del corpo, la ricostruiscono integralmente.
I responsabili dei progetti mettono le cose in chiaro e frenano facili entusiasmi: non sarà possibile riportare in vita nessuno, almeno inizialmente. Si tratta infatti di una sperimentazione che ha il solo obiettivo dichiarato di capire se la strada è percorribile o meno.
Un’iniziativa di questo tipo porta con sé inevitabili ripercussioni di tipo etico. Le persone per le quali viene dichiarata la morte celebrale conservano le altre funzioni vitali esclusivamente grazie al supporto dei macchinari. A tal proposito, Dean Burnett della Cardiff University invita ad affrontare la discussione questione in modo non superficiale, sottolineando l’enorme differenza che intercorre tra il rianimare una parte di un organo e riportare in vita un essere umano. Difficilmente, infatti, pur ripristinando la capacità del cervello di regolare il funzionamento del corpo, il paziente potrà tornare alle condizioni antecedenti il trauma.