Anche gli orrori meritano un museo: una volta resi sterili e innocui, possono addirittura scatenare qualche forma di nostalgia. E questo diritto ce l’hanno anche i malware, che da tempo accompagnano lo sviluppo dell’informatica come in una sorta di trama parallela che con puntuale cadenza torna a far sentire la propria presenza. Il museo del malware non ha una sede fisica, ma ha un luogo virtuale ove può essere visitato: “The Malware Museum” è ospitato da Archive.org ed è curato dal responsabile F-Secure, Mikko Hypponen.
La storia dei malware è la storia di una filosofia underground che non va confusa con il mondo hacker. Simili nei lineamenti, ma ben differenti nel carattere, hacker e cracker hanno diviso le proprie strade fin dagli inizi: da una parte chi studia i software per cercarne e risolverne le vulnerabilità sulla scia dei principi di trasparenza e apertura; dall’altra chi sfrutta le medesime falle per finalità private, spesso per lucro, a volte per portare avanti battaglie ideologiche, in ogni caso creando del danno invece di operare con fare collaborativo.
The Malware Museum
Ma il museo del malware (vedi le immagini) è anche un modo per mettere in luce la grande differenza tra i primi codici d’offesa ed i sistemi odierni. Quel che risulta subito evidente è la differenza degli scopi e la forma con cui gli attacchi vengono perpetrati: attivi fin dagli anni ’80, sempre più diffusi con l’arrivo degli anni ’90, spauracchio online nel ‘2000 e oggi ormai elevati a problema endemico della rete globale. L’evoluzione ha aggiunto raffinatezza ai processi e tolto spettacolarità, poiché i primi malware avevano lo scopo specifico di manifestarsi: doveva essere evidente, sullo schermo, che qualcuno aveva ingannato qualcun altro e il computer era a quel punto inservibile, rovinato o semplicemente bloccato.
Se i primi malware presero il nome di virus c’era un motivo molto chiaro: la metafora dell’untore e della malattia corrispondeva perfettamente a codici che si trasmettevano in modo virale passando attraverso i floppy disk. Scambiarsi un file (floppy prima, CD poi, USB infine) era pratica abituale e il rischio di trovarsi a fare i conti con un virus era all’ordine del giorno. Con l’avvento del Web furono gli allegati a colpire in parallelo alle prime reti P2P per lo scambio di MP3. Il sistema era sempre più evoluto, ma con il Web scalava ad una dimensione nuova: l’interesse sui dati personali e sulle forme di pagamento online iniziava a rendere il gioco una sorta di perversione interessata (chiamarla “professione” descriverebbe bene il grado di capacità necessarie, ma non il profilo etico dei responsabili).
Una pallina che rimbalza sullo schermo; una foglia di cannabis con la richiesta di legalizzare la marijuana; disegni animati; ASCII-art di varia natura; semplici avvisi testuali su interfaccia DOS. E l’avvento degli antivirus, la scelta dei browser, il sospetto per le catene di email che puntualmente arrivavano con messaggi che inneggiavano all’apertura dell’allegato: in quegli anni la maturazione della consapevolezza personale sul problema della sicurezza cresceva a passo lento, mentre l’informativa cavalcava l’onda della grande esplosione. In questa dinamica i malware trovarono buon gioco a diffondersi ed evolversi, nel tentativo di scalare nuovi obiettivi e nuove forme di potere.
Guardare oggi alle immagini dei virus di allora è come guardare a vecchi reperti dietro una teca. A questo, del resto, servono i musei: i pericoli di allora sono sventati, ma la retrospettiva aiuta a comprendere cosa eravamo e da dove arriviamo. Il museo messo in campo da Archive.org è un buon esperimento divulgativo che, al netto della nostalgia per la meraviglia che rappresentava la prima informatica, descrive ai nativi digitali ciò che è stato il difficile percorso di traslazione dall’analogico al digitale, quando per eliminare un malware bisognava lavorare su righe di codice e spesso cedere alla ricerca di un amico o di un tecnico che decretava il trapasso dell’hard-disk o bypassava un blocco con un magico click. Queste storie ormai sono storia, roba da museo? In parte. Perché se cryptolocker continua a diffondersi via email tramite l’apertura improvvida di allegati, e costringe uffici in tutta Italia all’intervento di tecnici abilitati per salvare i file “sotto sequestro”, allora significa che l’utilità del Malware Museum è tutto fuorché semplicemente ludica ed espositiva.